lunedì, febbraio 26, 2007

Saturno contro

Un film di Ferzan Ozpetek. Con Stefano Accorsi, Margherita Buy, Pierfrancesco Favino, Luca Argentero, Ambra Angiolini, Serra Yilmaz, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari, Filippo Timi, Michelangelo Tommaso, Milena Vukotic, Luigi Diberti, Lunetta Savino. Genere Drammatico, colore Produzione Italia 2006.

Confesso che dopo i primi minuti, quando ho visto tutti seduti attorno al tavolo, a mangiare, parlare, scherzare ed organizzare fine settimana, mi è sorta spontanea una domanda: ma questo è Saturno contro oppure Le fate ignoranti? Per fortuna poi la trama si è sviluppata in modo diverso e così mi sono potuta godere uni dei più bei film che ho visto negli ultimi tempi.
Dopo Cuore sacro, Ferzan Ozpetek torna al tema a lui tanto caro: l’amore senza barriere. Al centro della vicenda un gruppo di amici, uniti ed affiatati, nonostante le differenze, il cui unico desiderio è il sentirsi parte di un gruppo, stare insieme, preoccuparsi gli uni degli altri, aiutarsi, confidare i propri segreti e le proprie aspirazioni, sfogarsi quando le cose non vanno per il verso giusto. Per tale ragione mi permetto di dire che forse il vero sentimento attorno la quale ruota tutta la trama è l’amicizia senza confini.
Davide è uno scrittore molto famoso; Lorenzo è un giovane pubblicitario che affronta la vita con entusiasmo e ama i suoi amici; Angelica è una psicologa che sostiene da anni una lotta contro il fumo; Antonio è un bancario con poche certezze nella vita; Neval è una traduttrice turca; Roberto è un poliziotto balbuziente; Sergio è un nullafacente che vive di rendita; Paolo è un laureato in medicina che sogna di fare lo scrittore; Roberta è una ragazza che crede negli oroscopi. Tutti loro hanno la propria vita, al di fuori del gruppo. Tutti loro affrontano i loro piccoli (o grandi) problemi quotidiani, come la perdita di una persona molto cara, o il tradimento di un marito, o il tunnel della droga, o l’incapacità di dimenticare un vecchio amore… Tutti loro sono uno e tanti allo stesso tempo. E sarà proprio un tragico evento a rafforzare, ancora di più, la loro unione.
Non è mai molto semplice seguire un film di Ozpetek senza eccessiva difficoltà, ma questa volta ci troviamo di fronte ad una pellicola molto più fruibile, grazie ad una trama ben definita e ad una serie di battute, spesso anche molto divertenti, che servono a spezzare un po’ il tono troppo serioso del film. Ovviamente a farla da padrona sono gli argomenti “scottanti” tanto cari ad Ozpetek, come l’amore gay, anche se mai come adesso questo film risulta essere attuale: la convivenza tra omosessuali e l’eutanasia ci riportano a vicende che fanno parte del nostro presente e che ci offrono parecchi spunti di riflessione. Di fronte all’armonia ed alla naturalezza con cui vengono affrontate certe tematiche, di fronte a personaggi così sereni e positivi, quasi sembra ridicolo continuare a scandalizzarsi per un bacio tra persone dello stesso sesso.
Ciò che ha dato maggiore credibilità al film è l’ottima interpretazione di tutto il cast. Al di là delle riconferme di bravi attori oramai consolidati nel panorama cinematografico italiano, come Margherita Buy, Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari e la sempre presente Serra Yilmaz, mi preme porre l’attenzione su attori giovani che forse tanto attori fino ad oggi non sono stati:. Michelangelo Tommaso è noto al pubblico per avere recitato in Un posto al sole, e per qualche pubblicità famosa (come quella delle Poste dove ha fatto l’incontro con Ozpetek); Ambra Angiolini, ex fidanzatina d'Italia ai tempi di Non è la rai, che nella vita ha tentato di fare un po’ di tutto (cantante, presentatrice, opinionista…); Luca Argentero, arrivato alla ribalta per avere partecipato ad una edizione del Grande fratello, e che deve molto al suo bell’aspetto. Sarà stato il cast stimolante, sarà stata la bravura del regista, ma questi tre giovani hanno davvero retto bene.


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mercoledì, febbraio 21, 2007

Notte prima degli esami oggi

Che sia il 1989 o che sia il 2006 la sostanza non cambia: gli esami di maturità rappresentano uno spartiacque nella vita di ogni persona, ovvero la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta.
Cast e personaggi rimangono invariati, eccezion fatta per la protagonista femminile che non è più la mora Claudia, figlia del terribile professore di lettere soprannominato “la carogna” da 4 generazioni di studenti, ma la bionda Azzurra, studentessa universitaria e futura biologa. Ma anche qui il risultato è lo stesso: un incontro casuale e il cuore di Luca Molinari, diciannovenne in procinto di fare gli esami di maturità, comincerà a battere e lo porterà a distrarsi dai suoi studi.
Come definire questo “Notte prima degli esami oggi”? Non è un seguito, non è un remake, non è un episodio. Semplicemente una rivisitazione in chiave moderna del precedente film che tanto consenso di pubblico e critica ha ricevuto. Due generazioni a confronto, quella degli anni 80 e quella odierna che mettono in risalto il cambiamento dei tempi ma non dei valori.
Negli anni ’80 tutto era diverso: si portavano pantaloni a vita alta, con la gamba stretta e corta; ci si chiamava al telefono di casa o dalla cabina telefonica; si andava in giro con il Sì della Piaggio; ci si “imbucava” alle feste ballando i Duran Duran, gli Europe, Madonna e gli Spandau; si leggeva Alan Ford e si cercava invano di ricomporre il cubo di Kubric.
Vent’anni dopo sembra di vivere in un’altra era: ci si parla al cellulare e ci si scambiano sms; si fanno incontri in chat e si rischia pure di fare sesso virtuale; si fanno raduni e si balla tutti nudi su un ponte di Roma; si scrivono particolari della propria vita privata su un blog.
Due generazioni a confronto, tante differenze ma un elemento comune: il valore dell’amicizia che non tramonta mai e che è destinato ad essere più forte di qualunque dissapore o problema.
Forse la magia del primo episodio si è spezzata quasi irrimediabilmente, ma chi vi scrive è una persona che gli anni ’80 li ha vissuti e quindi non può essere imparziale e distaccata. Notte prima degli esami oggi è il ritratto di una gioventù moderna con meno tabù e più strumenti a propria disposizione. Ma anche il ritratto di un’Italia che, in occasione dei mondiali vinti nel 2006, si riuniva nei locali a festeggiare e ad abbracciarsi per un gol segnato. E forse, anche per questo, un po’ di nostalgia fa increspare la pelle di brividi.

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martedì, febbraio 20, 2007

Il Codice Da Vinci


Il motivo principale che mi ha spinta a leggere “Il codice Da Vinci” è stata l’enorme curiosità sviluppatasi attorno a questo romanzo definito da molti un capolavoro assoluto, il libro mastro della verità. La curiosità, si sa, smuove più delle minacce ed è per questo che mi sono avventurata in questa lettura a me piuttosto insolita.
Sono due le considerazioni che si possono fare attorno a questo romanzo: una riguardo al contenuto ed una riguardo alla forma.
Dan Brown è uno storico e come tale ha fatto delle ricerche abbastanza approfondite su un argomento piuttosto delicato: la vita di Gesù Cristo. Attraverso letture di libri poco noti, molti dei quali banditi dalla Chiesa, è emerso che Gesù si fosse sposato con la Maddalena,che abbia avuto dei figli e che la sua stirpe potrebbe ancora oggi essere viva e protetta da una setta. Ops, forse vi ho detto troppo relativamente alla trama, ma a dire il vero credo siano davvero in pochi coloro che non sono stati vinti dalla curiosità come me. Ma torniamo alla trama.
Dunque, se Gesù ha avuto una moglie e dei figli, la domanda nasce spontanea: per quale motivo è stato tenuto nascosto? Perché nelle letture sacre questo aspetto non viene menzionato? E per quale motivo la Chiesa si sarebbe prodigata a tal punto da nascondere e perseguire tutti coloro che sostenevano questa verità? Domande a cui è difficile trovare una risposta. Una delle motivazioni che vengono fornite all’interno del libro riguarda la posizione della donna che la Chiesa ha voluto tenere sottomessa all’uomo. La figura di Maria Maddalena, da moglie di Cristo, viene declassata a prostituta che si redime e conduce una vita dimessa, al servizio degli altri. Tesi avvalorata poi durante il Medioevo, quando le donne venivano considerate dei demoni potenziali e, al minimo sospetto, bruciate sul rogo come streghe. Tutte considerazioni plausibili che però ci lasciano perplessi: dopotutto attuare uno sterminio solo per creare una società patriarcale ci sembra una motivazione poco valida.
Possiamo credere o non credere alle parole di Dan Brown, che tra l’altro fa un’ipotesi e la accompagna con riferimenti a testi, ma tutto questo, dal punto di vista di un credente, cambia davvero poco. In fin dei conti gli insegnamenti di Cristo rimarrebbero tali e quali ed anzi si finirebbe per dare maggiore valore al matrimonio consacrato. Quello che ci atterrisce invece è l’eventuale comportamento della Chiesa e le sue infinite ed oscure manovre. Cose che in ogni caso non sapremo mai. Alla fine, come lo stesso autore finisce per dire, quello che conta in una religione non è credere in qualcosa che sia veramente accaduto, ma credere.
Per quanto invece riguarda la forma prettamente letteraria del romanzo, sono parecchie le perplessità che vorrei sollevare. Dan Brown è uno storico e come tale si è prodigato nella ricerca di informazioni relative ad un particolare argomento. Dopo avere raccolto molteplici testimonianze contrastanti ha deciso di scrivere un libro. Ma se avesse scritto l’ennesimo trattato storico, avrebbe finito per arricchire la biblioteca di testi dedicati solo ad una nicchia, escludendo di fatto tutti coloro che si addormentano dopo le prime 3 righe di qualunque testo storico. Ecco perché l’idea (geniale) del romanzo. Quale modo migliore di raccontare una scabrosa verità condendola con una storia parallela, fatta di suspance, inseguimenti, verità che saltano all’improvviso e qualche morto qua e là? Un colpo di genio che è valso milioni di dollari. Ma Dan Brown è uno storico, non un romanziere, e questo si nota ad ogni pagina del libro: molti periodi inframmezzati da una punteggiatura costante e fastidiosa; un modo di raccontare gli episodi condendoli con inutili giri di parole che cercano, innanzitutto, di allungare la storia e, in secondo luogo, di rimandare il proseguimento della storia ad una decina di capitoli successivi. In questo modo si è indotti a leggere fino alla scoperta della verità, ma con una suspence che è più curiosità infastidita.
Di thriller c’è ben poco perché tutta l’azione è abbastanza scontata, tipica da film americano. Sembra di leggere più un copione che un romanzo. Per chi è un purista della letteratura, come me, non può che soffrire questo stile così banale e dilettantistico di tenere altro il ritmo narrativo. Per chi crede che a fare la bellezza di un romanzo non è la storia ma il modo in cui viene scritto, non può che rimanere deluso dal fatto che il libro più venduto degli ultimi anni sia scritto da chi non sa scrivere.

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lunedì, febbraio 19, 2007

Il Signore degli Anelli

Titolo: Il Signore degli anelli
Autore: J.R.R. Tolkien

Se pensate di conoscere tutto su “Il Signore degli Anelli” solo perché avete visto decine di volte la trilogia cinematografica di Peter Jackson, allora vi sbagliate di grosso perché si può dire che conoscete per meta la metà di questa storia, e per metà di essa nutrite la metà dell’interesse che merita… Questo romanzo, scritto e pubblicato da John Ronald Reuel Tolkien tra il 1954 e il 1955, è considerato non solo il capolavoro assoluto del genere fantasy, ma uno dei capolavori della letteratura mondiale di sempre. Una vicenda molto articolata, intensa, affascinate, travolgente e appassionante che riesce a tenere il lettore sempre attento e vigile, completamente assorbito dal ritmo narrativo, a volte più lento e descrittivo, altre volte più concitato e da brivido.
Tolkien è considerato anche uno dei maggiori studiosi della letteratura anglosassone e medioevale. Affascinato da questo contesto ha deciso di scrivere una storia ambientata in un mondo di pura fantasia, molto simile a quello cavalleresco, e popolato da tante e strane creature: ci sono gli uomini, esseri mortali, attratti dal potere che, tuttavia, finisce per renderli schiavi; ci sono gli elfi, esseri immortali e bellissimi, capaci di comporre versi poetici sublimi e allo stesso tempo di essere valorosi combattenti in battaglia; ci sono i nani, grandi scavatori di miniere e avidi di oro e argento; ed infine ci sono gli Ent, specie di alberi dalle sembianze umane (o uomini dalle sembianze di albero?). Ma per diversi secoli il mondo ha ignorato l’esistenza degli hobbits, i “mezz’uomini”, creature pacifiche e tranquille, che vivevano nella Contea, lontani e disinteressati da tutto ciò che accadeva nel resto della Terra. Eppure saranno proprio loro, gli hobbits, a salvare il mondo dal Male.

Tutta la vicenda ruota attorno ad un anello, un piccolo oggetto capace di conferire a chi lo indossa un enorme potere. L’anello fu costruito per Sauron, signore del male, che lo adoperò per governare il mondo intero, fino a quando lo perse ed egli sembrò addormentarsi per sempre. Ma l’anello brama di tornare al dito del suo padrone ed il male si risveglia. L’anello vive di vita propria, induce gli uomini in tentazione, confonde le loro menti, annulla la loro volontà e fa dimenticare loro ogni contatto con la vita reale. Sarà Frodo Baggins, un hobbit, incaricato di riportare l’anello a Mordor, luogo in cui fu costruito, e distruggerlo per sempre. L’impresa pare delle più ardue: partito con una compagnia di 9 elementi, dovrà affrontare migliaia di pericoli e agguati. Braccato dai Nazgul (cavalieri neri schiavi di Sauron), tra mille peripezie, tradimenti, divisioni, perdite e battaglie, l’impresa sarà compiuta, non senza un finale più che rocambolesco che sembra quasi vanificare tutti gli enormi sforzi compiuti.

Una storia immensa, che ha dell’incredibile, specie se pensiamo all’infinità di personaggi, con le loro enormi stirpi e vicende che si intrecciano, si avvicinano e si allontanano, per poi ricongiungersi nuovamente. Il tutto senza mai cadere in contraddizione, come se la vicenda fosse davvero accaduta e Tolkien fosse un semplice narratore, e non l’architetto e inventore di tutto.

Molti quindi i personaggi che animano la storia, a cominciare dai 9 elementi della Compagnia dell’Anello, formatasi per compiere la difficilissima missione di distruggere l’anello: Frodo, il portatore dell’anello, un hobbit pacifico e tranquillo, improvvisamente investito dalla responsabilità di salvare il mondo; Samvise, servitore di Frodo, compagno fedele fino alla fine e, per molti versi, vero eroe della vicenda; Merry e Pipino, giovani cugini di Frodo che torneranno dalla missione più cresciuti (in tutti i sensi!); Aragorn, discendente diretto di Isildur ed erede al trono di Gondor, consapevole che il suo destino sta per compiersi; Boromir, figlio del sovrintendente di Gondor, uomo forte e coraggioso ma troppo debole per resistere alle tentazioni dell’anello; Legolas, elfo dei boschi, dotato di una vista molto acuta e grande arciere; Gimli il nano, grande maneggiatore di asce; e Gandalf il Grigio, che poi diventa Gandalf il Bianco, uno stregone saggio che sa sempre la cosa giusta da fare. Attorno a loro gravitano centinaia di personaggi le cui vicende sono così profonde e coinvolgenti che si finisce per considerarli come degli amici! Ma il personaggio più emblematico di tutta la vicenda è Gollum, colui che ha tenuto nascosto l’anello per 500 anni e che tenterà di riprendersi il suo “tesoro”. Gollum un tempo era una specie di hobbit di nome Smeagle, la cui vita viene sconvolta dal ritrovamento dell’anello del potere. Da quel momento egli compirà crimini e misfatti, vivrà in luoghi bui e coverà dentro di sé il male, fino a diventarne completamente schiavo. Ma Smeagle, la parte buona, non è del tutto sparita e tornerà spesso a galla, dando vita ad un fantastico dialogo interiore, come quando l’inconscio parla con la coscienza. E la sua fine sarà ancora più emblematica.

Il libro è diviso a sua volta in tre libri: La Compagnia dell’Anello, Le due Torri e Il ritorno del Re. Inoltre, alla fine del libro, si trova un’interessantissima appendice letteraria che spiega un po’ l’origine e la vita delle varie dinastie, fino al raggiungimento dei tempi in cui si svolge la vicenda dell’anello. Tra i momenti narrativi più concitati citiamo l’attraversamento delle Miniere di Moria e la guerra di Condor; tra i momenti più emozionanti la morte di alcuni personaggi che si sono sacrificati per la missione.

Quale è la morale o l’essenza di questo romanzo? Potremmo dire l’eterna lotta tra il Bene e il Male, ma sarebbe un'interpretazione troppo superficiale. C'è una linea sottile che divide il bene dal male e questa linea sottile si chiama "saggezza". Ogni creatura vivente, sia essa anche la più buona, trovandosi di fronte al richiamo del potere, ne viene attratta, fino a diventarne succube. Solo la saggezza tiene gli uomini lontani dal suo richiamo e quindi a rimanere integri.
Ma quello che più colpisce in questo romanzo è l’unione, quel senso di fraternità che unisce creature completamente diverse tra loro, a volte anche i contrasto, che non solo combattono fianco a fianco per lo stesso scopo, ma finiscono per diventare grandi amici.

Articolo pubblicato su Mediatroupe

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Arrivederci piccole donne

Titolo: Arrivederci piccole donne
Autore: Marcela Serrano

Difficile trovare qualcuno che non conosca la storia delle quattro sorelle March, nate dalla penna di Louisa May Alcott e protagoniste non solo del suo romanzo più famoso, “Piccole donne”, ma anche di molteplici sceneggiature ad esso ispiratesi. La storia di 4 ragazzine che, vivendo un contesto storico non felice ed una condizione sociale non ottimale, sognano un futuro migliore, diventando delle donne realizzate, ognuna con aspirazioni differenti. Ma che cosa succede quando questi sogni si realizzano senza però portare quella gioia tanto sperata ma tutte le conseguenze del caso, a volte dolorose, a volte faticose, a volte difficili? Questo è quello che ci racconta Marcela Serrano nel suo personale remake del romanzo più letto dalle donne in età giovanile.

Protagoniste questa volta non quattro sorelle ma quattro cugine, che vivono come delle sorelle e che costruiscono il loro rapporto nelle lunghe estati passate al Pueblo, la segheria di famiglia, lasciata in eredità dal nonno e gestita da una zia. Lo scenario è il Cile, a cavallo del colpo di stato dell’11 settembre del 1978. Ognuna di loro incarna una delle sorelle March: Nieves, la più grande, come Meg, sogna di sposare l’uomo della sua vita, di fare tanti figli e vivere la propria condizione di moglie e madre; Ada, come Jo, è l’anticonformista del gruppo, ama scrivere, più di ogni altra cosa, sogna di diventare una scrittrice, porta i capelli corti e non indossa mai abiti femminili; Luz, come Beth, sogna di fare del bene al mondo intero, aiutando i più deboli e gli indifesi, anteponendo la loro vita alla propria; Lola, come Amy, sogna di diventare ricca e amata dagli uomini, lei che è così bella e così tenace. Ebbene tutte e quattro realizzeranno i loro sogni, ma si vedranno costrette a fronteggiare anche i cosiddetti “risvolti della medaglia”, quel quotidiano fatto anche di responsabilità e delle conseguenze delle rispettive scelte.

Un romanzo che quindi, a differenza di “Piccole donne”, si proietta in uno scenario più adulto, più realistico, più duro e senza troppi fronzoli. La vita è fatta di tutto questo ed i ricordi di infanzia, per quanto belli e profondi possano essere, restano appunto dei ricordi e nulla più, destinati a segnare la vita come un fardello da portare dietro per sempre. Il romanzo, che ha inizio nel 2002, quando le cugine sono già adulte, ripercorre come una specie di lungo ricordo tutti gli anni precedenti, ed in particolare l’ultima estate trascorsa al Pueblo in cui prima i risvolti sentimentali di alcuni dei protagonisti e poi la rivoluzione costringerà ad un cambiamento radicale alle vite di ognuna di loro, irrimediabilmente.

Una storia quindi che parla di donne, della loro forza e della loro debolezza, dei loro sentimenti, delle loro invidie, delle loro rivalità, come quella tra Ada e Lola per il cugino Oliverio, unico uomo protagonista della vicenda e che, seppure in maniera marginale, vivrà il suo dramma attraverso gli occhi delle donne che lo circondano. Che cosa resta alla fine quando essere diventata madre ti ha precluso ogni altro tipo di esperienza; quando essere anticonformisti ti ha isolato dal mondo intero; quando essere diventati buoni ti ha impedito di godere della tua vita; quando essere diventati ricchi non ti ha comunque dato la felicita? Che cosa resta se non tornare alla ricerca di quel passato, quando tutto ancora poteva essere e quando si poteva ancora sognare? Ma il passato porta sempre con sé tanta malinconia, e forse è meglio lasciarlo lì dove è piuttosto che vedere come tutto sia cambiato.

Molto amaro il finale.


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Dylan Dog, l'indagatore dell'incubo

Quando nel lontano 1986 Tiziano Sclavi ideò il personaggio di Dylan Dog di certo non poteva immaginare che stava per creare il fumetto di maggiore successo degli ultimi 20 anni. Già perché questo fumetto, che avrebbe dovuto essere il primo del genere horror in Italia, in realtà appassiona moltissimi lettori, di tutte le età, e soprattutto coloro che nei confronti del genere horror nutrono una certa avversione. Fenomeno di massa o fenomeno culturale? Leggendo con attenzione queste le storie che animano ogni uscita saltano subito alla luce gli elementi vincenti di questo fumetto. A cominciare dal suo protagonista.

Dylan Dog è un personaggio piuttosto singolare, come singolare è la sua professione. Indagatore dell’incubo, ovvero un investigatore privato che va a caccia di mostri, vampiri, fantasmi e creature dell’oltretomba. Ora, parlando di un tipo del genere, ci si aspetta di trovarsi di fronte il più classico degli “eroi”, coraggioso, intrepido, integerrimo e senza macchia. Invece Dylan Dog è un “eroe umanizzato”, molto lontano dall’essere intrepido, coraggioso e irreprensibile. Poco più che trentenne, con un passato misterioso alle spalle (ex agente di polizia ed ex alcolizzato), Dylan è affetto da molte paranoie: è clautrofobico, ha paura di volare e dei serpenti, è vegetariano, veste sempre allo stesso modo, è un convinto animalista, ama suonare il clarinetto, i suoi gusti alimentari non vanno al di là di una pizza e da una vita tenta di costruire un modellino di galeone che probabilmente non finirà mai. La sua casa è un accozzaglia di cimeli e cianfrusaglie degni di un qualunque museo dell'orrore ed il campanello, anziché trillare come quello di chiunque, produce un suono uguale ad un grido. Come investigatore poi non è neppure così bravo: molti dei suoi casi restano irrisolti, ed il più delle volte le sue paure ed insicurezze finiscono per ostacolarlo. Ma soprattutto lui non crede né ai mostri né ai fantasmi, anzi è il primo a prendere in giro i suoi stessi clienti. Un paradosso, è vero, ma se ci si riflette bene non è proprio così. Già perché i mostri non sono altro che metafore di quelli che sono i mali che affliggono la nostra odierna società, come l’indifferenza, l’egoismo, l’insensibilità, la solitudine, l’odio e l’incapacità di trovare un senso alla vita. Tutte caratteristiche che ancora di più vengono accentuate da una Londra tanto bella quanto frenetica. Questi sono i veri mostri contro cui Dylan combatte e contro cui ognuno di noi si scontra ogni giorno. Contrapposto a tutto questo odio vi è l’amore, quello di Dylan nei confronti delle tantissime donne protagoniste delle sue storie. Dylan infatti è piuttosto sensibile al fascino femminile e perde facilmente la testa per le sue stesse clienti. Non si deve pensare ad un play boy in bello stile: Dylan si innamora sul serio ed il più delle volte ha chiesto alla donna amata di sposarlo. Ma ogni storia finisce a pagina 98, e nel numero successivo si ricomincia daccapo, come se ci trovassimo di fronte ad una storia nuova, priva di tempo...

Come tutti gli “eroi” è accompagnato da un assistente, Groucho, il cui personaggio è l’esatta copia di Groucho Marx. Un assistente singolare come il suo padrone: distratto e troppo impegnato nelle sue battute dall’umorismo molto inglese che il più delle volte atterriscono i clienti fino a farli scappare. Una spalla poco discreta e fin troppo invadente, che è però riuscita a creare un suo stile umoristico a cui molti si rifanno. Molto importante è la figura dell’ispettore di Scotland Yard Blooch, grande amico di Dylan e prossimo alla pensione che non arriverà mai! Blooch è un uomo non più giovanissimo, troppo debole di stomaco di fronte alla visione dei copri dilaniati che spesso deve assistere… E poi ci sono quelle figure che si ripropongono in certi numeri, come Morgana, il grande amore di Dylan, o come Xarabas, che alcuni hanno azzardato potrebbe rappresentare il padre misterioso di Dylan. E poi tutte le innumerevoli fidanzate di cui abbiamo già parlato.

Le storie sono curate fin nei minimi dettagli da Tiziano Sclavi. Lo stesso Sclavi, che con Dylan Dog ha creato il suo alter ego, fino a qualche tempo fa era lo sceneggiatore unico. Oggi si limita a supervisionare tutte le sceneggiature che non devono mancare degli elementi contraddistintivi: mistero, suspance, moltissime citazioni (cinematografiche, letterarie, poetiche e persino ritrattistiche), e personaggi che il più delle vote prendono l’ispirazione da personaggi già esistenti. Come accade in “L’uomo che visse due volte”, che ripropone lo sdoppiamento tra Mattia Pascal e Adriano di pirandelliana memoria, o come il tizio che impazzisce all’improvviso mentre fa la fila in banca in “Incubo di una notte di mezza estate” e che è l’esatta copia di Michael Duglas in Un giorno di ordinaria follia. Nulla quindi è banale e nulla è lasciata al caso, perché a Sclavi piace mischiare le carte senza però abbandonare il filo conduttore della trama. E soprattutto c’è molto verismo in queste storie, che non sempre si concludono con un lieto fine e che spesso lasciano l’amaro in bocca. Per questo motivo mi sembra assai evidente che più che di fronte ad un fenomeno di massa ci troviamo di fronte ad un vero e proprio fenomeno culturale, capace di elevare il fumetto all’appellativo di “forma d’arte” che spesso, immeritatamente, gli viene negato. Il segreto del successo lo posiamo far risalire proprio all'umanità di Dylan, al suo essere "normale", paranoico e sentimentale, proprio come ognuno di noi.


Dylan Dog, edito dalla Bonelli Editore, è presente in edicola con moltissime uscite: oltre al mensile di storie inedite, esistono ben tre ristampe, un albo gigante, un Almanacco della Paura, uno speciale annuale, e i Superbook, raccolta delle migliori storie uscite nei vari speciali. Tutto materiale preziosissimo per i collezionisti e per gli appassionati.

Tra le storie più belle citiamo “Memorie dall’invisibile”, “Jhonny Freak”, “Finché morte non vi separi” e tantissime altre ancora.


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Le Vibrazioni II


E pensare che sono approdati al successo con il più classico dei tormentoni, quel Dedicato a te che nella primavera del 2003 spopolava su tutte le radio e su tutti i telefonini! Una bella canzone, sicuramente, ma sembrava che due sarebbero state le strade possibili per questo gruppo: o diventare un’altra meteora del panorama musicale, approdando al successo con un pezzo “bomba” e finendo per essere risucchiati dal successo dello stesso, oppure diventare fenomeno di massa (tipo i Lunapop), destinati ad un pubblico di ragazzine innamorate delle melodie romantiche e degli artisti! Ed invece, a distanza di due anni da quell’incredibile successo, ci troviamo qui a recensire il loro secondo disco e a spendere, meritatamente, parole di elogio. Si perché il gruppo milanese de Le Vibrazioni, formato da Francesco Sarcina (voce, chitarra, autore e compositore), Stefano Verderi (chitarra), Marco Castellani (basso) e Alessandro Deidda (batteria), non si è fermato un attimo, proiettandosi di prepotenza nel mondo musicale: disco di platino per il cd singolo Dedicato a te, 2 Italian Music Awards come Miglior Rivelazione e Miglior Gruppo, Nomination Best Italian Act per gli European Music Award MTV, e tanti singoli di successo che li hanno sempre fatti essere presenti sulle radio. Ora, immediatamente dopo la loro partecipazione al Festival di Sanremo 2005 con la canzone Ovunque andrò, esce Le Vibrazioni II, un album che più del primo marca quelli che sono gli elementi contraddistintivi del gruppo.
Ancora qualche traccia di pop-rock la si ritrova nel singolo che ha anticipato il disco, Raggio di sole che gira nelle radio da poco più di un mese. Ma questo brano è un po’ l’anello di congiunzione tra il passato ed un futuro che vede la trasformazione de Le Vibrazioni in un gruppo rock vero e proprio. I brani sono molto più elaborati, il suono delle chitarre è più acido, più libero, più armonico ed i testi, oltre a privilegiare il sentimento, vertono su argomenti più impegnativi, come il disagio sociale e le problematiche più attuali. Insomma, ci troviamo di fronte ad un gruppo rock vero e proprio, come non accadeva più da anni, specie dopo la dissoluzione dei Litfiba. Certo non c’è nulla di nuovo, sia nel look che nei pezzi, perché, come è ben noto a tutti, i 4 ragazzi milanesi privilegiano lo stile anni ’70, un po’ alla Led Zeppelin, e in molti brani si ha quasi l’impressione di tornare indietro nel tempo in melodie ormai destinate solo ai più malinconici del passato. Però fa un certo effetto ascoltare il rock in lingua italiana e soprattutto da questo gruppo, figlio di un’infinita gavetta, che finalmente è approdato al meritato successo. 14 brani, più una traccia nascosta, demarcano la creatività artistica di questo gruppo destinato a durare ancora parecchio e che speriamo ci regali ancora delle perle. Restiamo allora in attesa di vederli suonare dal vivo ed essere travolti dalla loro energia e dalla loro simpatia.

TRACKLIST:
01 Aspettando
02 Angelica
03 Sensazioni
04 Raggio di sole
05 Immagina
06 Lisergica
07 Musa
08 Ogni giorno ad ogni ora
09 In un mondo diverso
10 Sanguinaria
11 Ovunque andrò
12 I desideri delle anime dannate
13 L’angolo buio
14 …E non avere paura di vivere

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Le conseguenze dell'amore

Italia 2004
Di Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Olivia Magnani, Adriano Giannini, Raffaele Pisu, Angela Goodwin


Unico film italiano presentato in concorso a Cannes e accolto con dieci minuti di applauso: queste sono le credenziali di “Le conseguenze dell’amore”, secondo film del giovane regista napoletano Paolo Sorrentino, che si candida ad essere una delle migliori pellicole della stagione. Il titolo potrebbe trarre in inganno e far pensare alla solita storia d’amore sentimentale e travagliata. In realtà il fulcro della vicenda è ben diverso, come spiega lo stesso regista che, insieme agli interpreti Olivia Magnani e Adriano Giannini, sabato 25 settembre ha risposto alle domande dei giornalisti in conferenza stampa a Palermo: «Questo film parla delle conseguenze dell’amore non esclusivamente fra uomo e donna, ma anche dell’amore per la vita. Mi interessa molto raccontare il momento in cui le energie delle persone cambiano». Protagonista del film è Titta Di Girolamo (Toni Servillo), cinquantenne di origine salernitana, che di frivolo ha solo il nome. Infatti da dieci anni vive in una stanza d’albergo in Svizzera e conduce un’esistenza assolutamente monotona e priva di emozioni, fatta di abitudini, gesti quotidiani, silenzi e sguardi fugaci verso la realtà che intanto scorre e si consuma. Dalle prime scene del film potrebbe sembrare un uomo disadattato, che vive ai margini della vita perché non riesce a diventarne protagonista, che annota su un foglietto, come programma per il futuro, di fare attenzioni alle conseguenze dell’amore, che si nasconde dietro lontani ricordi e aspetta inesorabile la fine.

Pare abbastanza evidente il confronto col vicino di stanza Carlo (Raffaele Pisu), uomo non più giovane che ha dilapidato tutto il patrimonio al gioco e che sogna una morte rocambolesca e ricca di emozioni; o con il fratello Valerio (Adriano Giannini), giovane e superficiale, che fa l’insegnante di surf e va dietro a tutte le donne. Eppure gli sguardi impenetrabili di Titta, le poche parole spesso autoritarie e cariche di ironia pronunciate con voce ferma e profonda, i movimenti lenti e il continuo distaccarsi da tutto ciò che lo circonda inducono a pensare che dietro questa figura così asettica si nasconda un segreto inconfessabile che lo costringe ad essere prigioniero e non artefice di questo ruolo e lo circondano di mistero. Mistero che incuriosisce Sofia (Olivia Magnani), giovane barista, che dopo molteplici tentativi riesce a entrare nella vita di Titta. Dietro l’angolo si proietta una possibile storia d’amore che però non verrà mai vissuta e che in ogni caso sconvolge le scelte dei protagonisti e giustifica il finale. Straordinaria l’interpretazione di Servillo, sul quale praticamente si regge tutto il film. Attraverso i suoi primi piani si coglie tutta l’essenza di questo personaggio così complesso, e riesce a trasmettere le emozioni del protagonista senza però tradire quell’aspetto impenetrabile della sua figura. Discorso a parte per Olivia Magnani, nipote della celeberrima Anna, che quasi timidamente porta sulle spalle un pesante cognome: «Lei è una visione di Titta, ha meno autonomia. La maggiore difficoltà è stata quella di interpretare un personaggio non scritto e con pochi dialoghi».


Un film fatto prevalentemente di silenzi deve riuscire a colmare questa “lacuna” con altri mezzi di comunicazione. E Sorrentino, autore anche del soggetto e della sceneggiatura, ha fatto delle scelte ben precise e mai lasciate al caso. A cominciare dalle musiche che anziché fare da colonna sonora diventano sottofondo, si adattano alle circostanze e sembrano quasi seguire il flusso delle emozioni di Titta. Belle anche le inquadrature che a volte sembrano un insieme di foto espressive come tante diapositive. Curati anche gli ambienti e i particolari, come la stanza della banca tutta bianca e con poche finestre, dove l’assordante rumore dei soldi contati dagli impiegati trasmette freddezza e una totale assenza di emozioni; o come il quadro nella stanza di Titta, assolutamente privo di attrattiva, che ritrae dei banali cerchi concentrici dai colori spenti. Il finale lascia un po’ di amaro in bocca, anche se sembra una scelta obbligata e coerente alla figura del protagonista. E in fin dei conti alla solitudine e alla tristezza di questa vita che da dieci anni è una “non vita”, si contrappone il sentimento di amicizia che, nonostante gli anni, sembra restare immutato e sembra essere il vero messaggio del film. Con “Le conseguenze dell’amore” Sorrentino conferma quanto di buono aveva fatto vedere col suo primo film, “L’uomo in più”, presentato a Venezia nel 2001 e che aveva ricevuto numerosi riconoscimenti. Sorrentino si unisce anche alla schiera di giovani e promettenti registi italiani artefici di una ripresa del cinema italiano che da qualche anno aveva mostrato di essere in crisi.
Articolo pubblicato su Balarm il 27/09/2004

L'amore ritrovato


Italia 2004
Di Carlo Mazzacurati

Con Maya Sansa, Stefano Accorsi, Marco Messeri, Luisanna Pandolfi, Vania Rotondi, Giacomo La Rosa, Anne Canovas, Marie Christine Descouard, Claude Lemaire

Uscito nelle sale cinematografiche il 17 settembre e presentato fuori concorso alla mostra di Venezia, “L'amore ritrovato” è il nuovo ed attesissimo film di Carlo Mazzacurati, presentato nel circuito cinematografico palermitano lo scorso lunedì 20 settembre alla presenza dei due attori protagonisti, Stefano Accorsi e Maya Sansa. La popolarità datagli da “L’ultimo bacio” di Gabriele Muccino, rafforzata con “Le fate ignoranti” di Ferzan Ozpetek e consacrata con “Un viaggio chiamato amore” di Michele Placido (film che gli ha fatto vincere la Coppa Volpi alla mostra di Venezia del 2002), avevano trasformato Stefano Accorsi in un sex-symbol idolatrato dalle teen agers e in un attore di grande prestigio ambito da ogni regista. Eppure Stefano Accorsi, andando un po’ contro corrente, negli ultimi due anni è rimasto lontano dal grande schermo ed ha fatto parlare di sé solo per la sua ormai ben nota storia d’amore con Letizia Casta. Non si è quindi aggrappato all’onda del successo che lo aveva investito, ed ha voluto prendersi una lunga pausa di riflessione, come lui stesso ha dichiarato durante la conferenza stampa precedente la proiezione della pellicola: «La cosa bella di questo mestiere è divertirsi. Sono stato fermo perché sentivo troppa pressione, ero influenzato dal fatto che un film si chiudeva o meno se lo facevo io. Questo periodo di fermo mi ha aiutato a trovare il gusto di fare film, di scegliere in base al piacere». Facile quindi immaginare quali potessero essere le aspettative dopo un periodo di assenza durata ben 2 anni. Facile, anche, immaginare i commenti, a volte spietati, dei critici che si aspettavano di più da un film che forse non aveva altra pretesa che quello di raccontare una storia d’amore, ambientata in Italia nel 1936.

«A differenza di tanti film che parlano d’amore – spiega Accorsi – questo guarda i personaggi da vicino, entra nella loro intimità. È un film che vive di sguardi, di sensazioni». La storia d’amore, dunque, è la vera protagonista del film, tutto il resto fa da contorno. Pochi personaggi, montaggio delle scene abbastanza regolare, musiche non troppo ricercate (eccezion fatta per la canzone iniziale di De André che suscita un certo brivido specie se associata a delle immagini “d’epoca”): sono elementi che sottolineano le intenzioni del regista e le sue scelte nel modo di porre questa vicenda. Qualcuno ha criticato la scarsa attenzione prestata per il periodo storico, per la guerra, per le proibizioni del fascismo, per l’ambientazione. Ma questo discorso andrebbe fatto per un film storico e questo non è un film storico. Nell’aria si avverte un’atmosfera di malinconia, di sconforto e quasi di pietà per chi è costretto ad indossare una divisa e andare a combattere, come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa di forte che potrebbe cambiare tutto. Invece non accade nulla e se accade è accennato in maniera del tutto marginale.
La trama è abbastanza semplice: Giovanni è un banchiere, sposato e con un bambino. Maria è una sua vecchia fiamma. Si rivedono, si riaccende la passione, nasce un amore che li terrà uniti per sempre, anche a dispetto delle vicende della vita. Apparentemente una storia scontata, facilmente ritrovabile nelle infinite fiction che popolano la televisione e che, nonostante le ambientazioni storiche, ripropongono lo stesso andazzo e lo stesso tormento oramai privo di emozioni. In realtà questo film non vuole essere né banale né scontato, anzi vuole dimostrare che non è necessario incollare una fitta serie di colpi di scena, intrighi, inganni, inseguimenti e figli illegittimi per offrire al pubblico qualcosa di gradevole e al tempo stesso emozionante.

L’assenza di colpi di scena e la lentezza del ritmo fanno sì che l’intero film si regga sull’interpretazione. Bravo come sempre Accorsi, capace di essere a volte romantico, altre volte più cinico. Tuttavia siamo lontani dai personaggi travagliati e isterici che lo hanno reso famoso e che tanto avevano stupito. Forse non è questo il genere di film che più si adatta alle sue caratteristiche, ma un grande attore lo si vede anche in questi momenti, quando riesce a tirare fuori il meglio di sé anche in situazioni poco congeniali. Più convincente il personaggio della Sansa, che così racconta il suo personaggio: «Nel romanzo lei è una donna perduta, finita, come se fosse sempre sull’orlo di una crisi. Nel film questo personaggio è cambiato e più forte». E così, da donna fragile e quindi facile preda, si trasforma in una donna che vuole dimenticare il suo passato e vivere la sua vita serenamente. Si lascia prendere da questo amore, ma quando vede la moglie di Giovanni, si accorge di non essere la donna che lui ama bensì la sua amante. E trova la forza per ricominciare. Si invertono così i ruoli: l’uomo forte diventa incapace di scegliere; la donna debole prende in mano il suo destino. Dal 22 ottobre Accorsi sarà nuovamente nelle sale cinematografiche con “Ovunque sei”, film di Michele Placido e presentato in concorso a Venezia (quello del nudo integrale per intenderci!)

Articolo pubblicato su Balarm il 21/09/2004

Hitch, lui si che capisce le donne

U.S.A. 2005
Di Andy Tennant
Con Will Smith, Eva Mendes, Kevin James, Amber Valletta, Michael raraport

Come può un commercialista sovrappeso, senza ombra alcuna di fascino, imbranato, pasticcione, timido e asmatico riuscire a conquistare il cuore di una donna bella, ricca e famosa? Semplice, grazie a Hitch! Chi è Hitch? Un mago? No, nulla di tutto questo. Concettualmente potremmo definirlo un consulente, perché in realtà è questo che lui fa: dare consigli utili e mirati che si rivelano sempre efficaci e vincenti. Ma che tipo di consigli? Spieghiamoci meglio: un uomo conosce una donna che ritiene essere il grande amore della sua vita. Tuttavia è troppo timido per farsi notare da lei e chiederle anche solo di uscire: troppo grande è la paura di sbagliare tutto e soprattutto troppo opprimente la timidezza che fa dire solo frasi stupide o insignificanti. A questo punto arriva Hitch, un ragazzo che sa come conquistare le donne, che capisce cosa piace loro e cosa pensano. Bastano una serie di consigli mirati e una buona iniezione di fiducia, necessaria per farsi notare e iniziare così un dialogo, ed in soli tre appuntamenti si arriva al momento fatidico del primo bacio, ovvero quando una donna capisce molto su quella che potrebbe diventare una relazione.

Ci troviamo di fronte ad una commedia romantica, brillante e per certi versi originale, anche se i temi sono sempre gli stessi: la tanto delicata quanto emozionante fase dell’innamoramento, ma anche le incomprensioni, i malintesi, i piccoli litigi e le riappacificazioni. Immancabili le gag divertenti, anche se un po’ scontate, che comunque servono da un lato ad accentuare i lati comici dei personaggi, dall’altro a rendere il paradosso ancor più paradossale e allo stesso tempo inevitabile. E ritroviamo anche un Will Smith in versione divertente nei panni di Hitch. L’ex principe di Bel Hair , dopo aver combattuto contro i robot ed aver prestato la sua voce per uno dei personaggi di Shark Tale, torna ad un ruolo comico che sembra ritagliato per lui: da una parte c’è l’Hitch sicuro di sé, che sa affrontare le situazioni in modo programmatico, senza lasciare nulla al caso, ma dall’altro c’è l’Hitch innamorato, che si rende conto quanto sia difficile essere sempre lucidi quando ci si trova a vivere le emozioni in prima persona e che, incredibilmente, riesce a fare colpo proprio quando la situazione gli sfugge di mano e colleziona una serie di figuracce che avrebbero fatto scappare qualunque ragazza.

Tra i momenti più divertenti del film ci sono i duetti tra Hitch e Albert, il commercialista pasticcione interpretato da Kevin James, volto noto della TV americana. Il film, oltre a divertire, propone un quesito che resta irrisolto: cosa conta di più in amore, essere se stessi, al costo di fare brutte figure e di passare per degli stupidi, oppure vincere le paure e riuscire a mostrarsi sicuri e più concreti? Forse nessuna delle due è la risposta giusta e forse occorre un po’ di tutto.

Articolo pubblicato su Balarm il 22/03/2005