lunedì, febbraio 23, 2009

L'eleganza del riccio



Ho iniziato a leggere questo libro ad ottobre ed ho terminato adesso, a febbraio, e solo perché da giorni sono costretta a stare a casa. Lo ammetto, è il secondo libro che ha richiesto il mio maggiore sforzo (il primo è stato Cent’anni di solitudine di Marquez) e la lentezza la si può attribuire a tanti fattori:
1) i preparativi per il matrimonio;
2) la stanchezza fisica e mentale che mi aveva portato alla ricerca di cose più leggere;
3) la complessità dello stile narrativo.
Inutile soffermarsi sulle prime due argomentazioni. Preferisco approfondire il terzo punto.
Ma per parlarvi dello stile narrativo devo per forza di cose addentrarmi nella trama.
Protagoniste della vicenda due donne.
Renèè ha 54 anni, è bassa, grassa, bruttina, di umilissime origini e fa la portinaia presso un prestigioso palazzo di Parigi (lavoro che ha ereditato dal defunto marito). Apparentemente è una donna ignorante che non sa nulla sulle cose del mondo e che conduce con banalità la sua piatta esistenza. In realtà è una donna molto intelligente e molto colta (una cultura autodidatta, visto che le scarse possibilità economiche non le hanno permesso di studiare).
Paloma è una ragazzina di 12 anni figlia di un ministro, dotata anche lei di una straordinaria intelligenza e cultura ben al di sopra della media, che medita sul suo suicidio con incendio della casa annesso.
Che cosa hanno in comune queste due donne? A parte l’intelligenza e la cultura, di cui ho già parlato, entrambe preferiscono tenere nascosto il proprio sapere, senza condividerlo con nessuno, e solo perché ritengono il genere umano una massa incolta di gente senza un briciolo di cervello. Per 300 pagine non si fa altro che leggere delle loro continue lamentele sulla stupidità delle persone che li circondano, sul loro modo di enfatizzare problemi ridicoli e su come si credano chissà cosa solo perché hanno un banalissimo titolo di studio. Stanno lì a guardare il mondo dall’alto, con superbia ed alterigia, giudicando chiunque, come se fossero divinità possessori della verità assoluta.
Quale è il risultato di questo scellerato comportamento? Ovviamente tanta solitudine e tanta infelicità.
Lo confesso, mi hanno suscitato una tale antipatia e repulsione che più di una volta sono stata tentata di abbandonare il libro per leggerne qualcun altro. Eppure non l’ho fatto, forse perché speravo che prima o poi potesse succedere qualcosa di eclatante che cambiasse registro alla narrazione; forse perché in fondo lo scopo dell’autrice era proprio quello di suscitare nei lettori la stessa antipatia che queste due donne suscitavano a chi stava loro accanto (e qui come fare a non apprezzare la bravura di chi sa scrivere così divinamente?); forse perché quando l’ho comperato era il secondo libro più letto in Italia (preceduto da La solitudine dei numeri primi, pensa un po’ che disgrazia) e quindi meritava un briciolo di attenzione; o forse perché in fondo € 18,00 sono sempre soldi!
Comunque, ad un certo punto la svolta c’è stata. È entrato sulla scena un uomo. E qua – direte voi – la vicenda si fa banale. Quest’uomo, anche lui dotato di grande intelligenza e cultura, riesce a smascherare le due donne, diventando loro amico e condividendo momenti di vera felicità, parlando di cultura alla pari. Si, sono subentrati sentimenti di amicizia e anche d’amore, la storia è diventata quasi prevedibile, ma per lo meno era piacevole. Ma alla banalità non c’è limite, perché al culmine della felicità la protagonista muore (ops, non dovevo rivelarvi il finale, ma almeno vi risparmio questo strazio), e così non potrà mai godere della felicità, un po’ come fa Meg Ryan ne La città degli angeli.
E sapete quale è la morale della storia? Ve lo dico subito.
Renèe e sua sorella, nate nella povertà e nella miseria, erano destinate a vivere una vita di stenti e senza aspettative, proprio come i loro genitori, se solo non avessero avuto due doti che le differenziavano e grazie alle quali potevano emergere. La sorella era bella, Renèe era intelligente. Ma la bellezza portò la sorella a morire mettendo alla luce il figlio illegittimo di un riccone. Perché mai Renèe doveva correre il rischio, uscendo dalla sua rettitudine, di morire pure lei? Meglio fingere idiozia.
E difatti, quando grazie alla sua intelligenza trova amicizia ed amore, ecco che muore pure lei.
Ditemi voi quale morale più bella!!!

lunedì, febbraio 09, 2009

La guerra di Troia - Capitolo 10 - Storia di Achille


A Teti non ne andava bene una. Già aveva dovuto subire l’affronto di sposare, Peleo, un comune mortale, lei che era fra le più belle fra le dee, lei che un tempo era circondata da spasimanti, e tutto questo solo perché uno stupido oracolo aveva predetto che il figlio da lei partorito sarebbe stato più forte di suo padre. Ma ora una nuova disgrazia le era piombata addosso: questo figlio, Achille, tanto desiderato e tanto agognato, era nato mortale come il padre, e come tale era destinato a lasciare questo mondo per vivere nell’Ade. Come accettare l’idea di vedere il proprio figlio crescere, invecchiare e morire? Come fare per renderlo immortale?
Una soluzione c’era: le acque del fiume Stige. Queste acque sacre avevano il potere di rendere immortale chiunque vi si bagnasse, ed è per questa ragione che Teti, tenendo il figlio per il tallone, lo immerse a testa in giù nel fiume, rendendo così il suo corpo impenetrabile a qualunque tipo di arma. Solo il tallone, unica parte del corpo a non essere stata bagnata, era vulnerabile e questo era un segreto che Achille avrebbe dovuto custodire gelosamente (avrebbe, ma non lo fece. Questo però ve lo racconterò in seguito).
Achille fu affidato alle cure del centauro Chirone, che lo nutriva di prelibatezze quali midollo di leone e cinghiali per trasmettergli la forza, e miele e midollo di cerbiatto per renderlo agile, persuasivo e dolce.
Achille crebbe così bellissimo, forte, valoroso, puro di sentimenti, abile con la spada, abile nell’arte della parola, della musica e del canto. Disprezzava la menzogna, difendeva i più deboli e combatteva contro ogni sopruso. Era impossibile non volergli bene, la sua fama si sparse ovunque, molte fanciulle agognavano di sposarlo e gli dei gli diedero addirittura la possibilità di scegliere tra una vita breve ma gloriosa ed una lunga ma anonima. Achille, che era affamato di gloria e di immortalità, scelse la prima soluzione, perché nulla rende più immortali della memoria delle imprese valorose. Decisione che invece non fu ben accolta dai genitori che avrebbero voluto tenerlo accanto a loro il più a lungo possibile.
Lo scoppio della guerra di Troia mise in pista due altri potenti oracoli: il primo diceva che senza Achille gli achei non avrebbero mai vinto la guerra; il secondo invece diceva che a Troia Achille avrebbe incontrato la morte. Entrambi dicevano il vero perché, si sa, gli oracoli non mentono mai, e se da un lato gli achei, guidati da Ulisse, si misero alla ricerca disperata del figlio di Peleo, dall’altro Teti, per proteggere il figlio, lo fece nascondere a Sciro dove, travestito da donna, viveva tra le figlie del re Licomede. Lì Achille, noto per le sue frequenti passioni, si innamorò di Deidamia e da essa ebbe un figlio, Neottolemo. Sembrava fatta ma Ulisse, a cui ancora bruciava l’idea di essere stato scoperto e costretto a partire, aveva tutte le intenzioni di scoprire Achille. Travestito da mercante portò a Sciro gioielli per le donne ed un’armatura, alla vista della quale Achille si spoglio delle sue vesti femminili e si fece scoprire. La notizia della guerra infiammò il suo cuore: la gloria tanto cercata era lì, a portata di mano, pronta ad assoggettarsi alle sue imprese.
Sopraffatta dalla decisione del figlio Teti gli regalò dei cavalli ed un armatura, dono di nozze di Poseidone e di Efesto. Tutto era pronto, nulla poteva fermare il corso del destino.