mercoledì, novembre 19, 2008

Mille splendidi soli

Nonostante siano trascorsi già 6 mesi da quando ho terminato di leggere “Mille splendidi soli”, quando penso a Mariam e a come la vita sia stata così dura per lei non posso fare a meno di commuovermi. I primi tempi è stato difficile: scoppiavo in lacrime e mi sentivo la gola stretta da un grosso nodo. Non riuscivo a darmi pace, non riuscivo ad accettare l’ineluttabilità dei fatti, non riuscivo a comprendere come la crudeltà e il desiderio di potere fossero in grado di distruggere una cultura millenaria e di arrecare tante atroci sofferenze al genere umano.
Lo so che si tratta di personaggi di pura fantasia ma sono personaggi che vivono una realtà che purtroppo non è finzione e che è ancora presente.
Se avete letto o visto “Il cacciatore di aquiloni” e vi è sembrato triste, questo lo è 100 volte di più. Il romanzo narra la storia di due donne, molto diverse tra loro, per età, cultura ed educazione. Due donne che si ritrovano a vivere in Afganistan nel periodo forse più brutto di tutta la sua storia; due donne che istaurano tra loro un sentimento di amicizia talmente grande da andare oltre l’immaginario. Ora voi penserete: ma per quale ragione devo farmi del male leggendo una storia che è così triste? Semplice: perché non è una tristezza fine a se stessa. Ci sono sentimenti, passioni, sofferenze, piccole gioie che in certi contesti assumono proporzioni smisurate.
E poi c’è la storia di un paese, l’Afganistan, che fino al famoso 11 settembre era del tutto sconosciuto al genere umano salvo poi diventare famoso come una terra barbara, povera, disastrata, abitata da gente ignorante ed estremista, pronta a dare la vita dei propri figli in cambio di una ricchezza divina nell’oltretomba. Non è affatto così. Leggendo questo libro si scopre che un tempo l’Afganistan era un paese civile, vessato si da una serie di tensioni di natura razziale, ma un paese in cui splendidi palazzi ed immensi giardini facevano da cornice alla popolazione. La gente viveva, studiava, lavorava, si curava dai medici, faceva la spesa ai mercati, andava alle feste… C’erano i ricchi e c’erano i poveri così come ci sono in tutti i paesi del mondo; c’erano le persone cattive e c’erano coloro che difendevano i diritti dei più deboli, così come accade in tutti i paesi del mondo; e c’era soprattutto la pace ed un modo di vivere la religione serena e senza estremismi. Poi sono accadute tante cose, raccontate attraverso le parole ed i pensieri di chi in questa terra ci ha vissuto, anche quando le bombe fischiavano sopra i tetti e distruggevano intere famiglie, anche quando furono posti una lunga serie di divieti (come ridere, cantare, ballare), anche quando le donne furono trattate come meno che niente.
Si la storia è triste ma allo stesso tempo commovente e bellissima. Impariamo ad affezionarci a Mariam, Laila, Tariq ed i loro genitori. Impariamo ad apprezzare questa terra così bella e così martoriata e alla fine guardiamo in modo differente la storia.

domenica, novembre 09, 2008

I Beati Paoli


Ho appena finito di leggere i Beati Paoli e scrivo con l’impeto di chi è rimasto commosso dall’epilogo di tutta la vicenda.
Potrei parlarvi del periodo storico in cui si svolge la storia, a cavallo tra il 1600 ed il 1700, quando parecchie dominazioni si alternavano sul regno di Sicilia, con buona rassegnazione della popolazione che tanto non vedeva mutata la propria condizione; potrei parlarvi della giustizia, che tutto perdonava ad una nobiltà troppo potente e fiera, e si accaniva contro la povera gente che non solo subiva, ma non aveva nulla per potersi difendere; potrei parlavi di una setta segreta che aveva il compito di riparare ai torti della giustizia e che grazie al coraggio di uomini incappucciati, affrontava enormi pericoli; potrei parlarvi dei molteplici protagonisti le cui vicende infiammano queste più di 800 pagine, ma è di una di loro che oggi mi sento di parlare, di una donna forte che grazie alla sua passionalità ha modificato il corso della vita sua e delle persone che le stavano accanto.
Donna Gabriella era una donna giovane e molto bella, di quella bellezza che attraeva ed inebriava gli uomini. Molti le ronzavano attorno, la riempivano di complimenti e la corteggiavano, ma lei, lusingata da tante premure, rimaneva indifferente ed il suo cuore mai si abbandonava a sussulti. A 20 anni la fecero sposare con Don Raimondo, duca della Motta, che aveva 25 anni più di lei. Un matrimonio che si consumava nella reciproca indifferenza con buona rassegnazione dei due coniugi e dal quale non nacquero figli.
Poi un giorno spunta dal nulla un giovane misterioso, bello, forte, coraggioso, che difendeva i più deboli e combatteva le ingiustizie: Blasco da Castiglione. Fra i due nasce subito l’amore ma Blasco, per rispetto del marito, decide di rinunciare a questo amore con grande dispetto di Gabriella. Questa infatti, sentendosi rifiutata nel suo amore e nella sua passione, comincia a nutrire per Blasco molteplici sentimenti, tra i quali spuntano anche odio e desiderio di vendetta. Sentimenti che accrescono quando si accorge che Blasco si innamora di un’altra donna, Violante, figlia della prima moglie di don Raimondo. A quel punto Gabriella fa di tutto per impedire il loro amore ed in un impeto di violenza tenta pure di accoltellare la figliastra.
Molte cose accadono poi e Blasco decide di cambiare aria e parte per la Spagna. Al suo ritorno, dopo 5 anni, ritrova Gabriella, ormai vedova, che dopo la morte del marito ha condotto una vita austera. Molti pensano che si tratti di un eccessivo rispetto al defunto marito, ma in realtà ella soffriva per la partenza dell’uomo amato e per l’impossibilità di amare qualcun altro. Per questo quando lo vede spuntare nuovamente dal nulla gli si getta tra le braccia e Blasco, commosso dall’amore di questa donna tanto bella, tanto passionale e tanto innamorata, finisce per cedere.
Gabriella ama Blasco.
Ma Blasco ama Gabriella?
Questo lui non lo sa. Prova per lei affetto ed una infinita riconoscenza per quel suo modo di donarsi e di amarlo. Ma non gli basta. E poi nel suo cuore c’è ancora Violante. Tuttavia si sacrifica, per la sua felicità.
Gabriella però sente che l’uomo che ama non contraccambia. La gelosia le rode l’anima, le insinua nella mente ogni più piccolo sospetto, sarebbe pronta ad uccidere entrambi se li scoprisse assieme. Tenta in tutti i modi di fare riaccendere la passione ormai sopita in lui ma con scarsi risultati. Tenta allora di dimostrargli che lo ama sopra ogni cosa e finisce addirittura per salvare la sua rivale. Un giorno infatti uccide un uomo che stava per violentare la ragazza, e lo fa solo perché sa che questa cosa renderebbe felice Blasco.
Che strana donna è Gabriella: se avesse acconsentito a quell’oltraggio forse Blasco avrebbe finito per allontanarsi ancora di più da Violante, ma lei agisce sempre di istinto e l’istinto le ha portato a fare tutto ciò.
Questo però ancora non basta. Il suo sacrificio ha avuto l’effetto di tenere Blasco legato a lei per riconoscenza; ha avuto l’effetto di tenere Violante (infinitamente riconoscente verso la matrigna) lontana da Blasco; ma non ha spento nei cuori né di Blasco né di Violante l’amore l’uno per l’altro. Ed allora, per dimostrare che a Blasco che lei lo ama anche a costo del sacrificio, si avvelena, davanti ai loro occhi, offre ad uno la mano dell’altra e chiede loro di ricordarsi di questo sacrificio.
A quel punto non ho potuto fare a meno di esclamare: che donna!
Amava un uomo con tutta se stessa: l’idea di vederlo tra le braccia di un’altra suscitava in lei mostruosi desideri di vendetta, ma quando si è resa conto che il cuore di lui non sarebbe mai stato suo, ha capito che doveva mettersi di lato. Ma saperli insieme le provocava troppa sofferenza e quindi ha preferito morire per non soffrire più.
Questa storia mi ha commossa ed è per questo che ho voluto raccontarvela. Forse vi ho rivelato il finale del romanzo e se quindi avreste voluto leggerlo ora sapete come va a finire. Ma in questo romanzo ci sono molti retroscena e molte altre storie che vale la pena di leggere.




martedì, ottobre 21, 2008

Il moralizzatore

Di giorno è una persona normale come tutte le altre: simpatico, alla mano, socievole, cortese… Se lo incontri per strada non è detto che non si fermi a scambiare 2 chiacchiere con te, a prendere un caffè al bar, a discutere del più e del meno, profondendo sorrisi e buon umore.
Ma quando scendono le tenebre su tutta la terra, quando il buio serpeggia tra le strade rendendole più insidiose, quando la soglia di attenzione si affievolisce in ognuno di noi, ecco che avviene la trasformazione: egli si chiude dentro una cabina del telefono e, dismessi i panni della persona comune, indossa quelli del supereroe che incarna: il moralizzatore!

A quel punto diventa irriconoscibile: giacca e cravatta sempre in tinta; capelli corti, ben pettinati e senza mai un ciuffo fuori posto; barba appena fatta e viso liscio e ben curato; ma soprattutto quello sguardo sereno e serafico di chi è al di sopra di tutto, di chi passa davanti alla sporcizia senza intaccarsi, di chi è immune da ogni tipo di peccato.
Come potremo vivere senza di lui, che ci punta il dito contro e ci elenca l’innumerevole lista dei nostri peccati? Noi, poveri esseri mortali, troppo presi da cose futili, come lavorare, o mettere soldi da parte per fare la spesa, pagare le bollette e arrivare a fine mese; noi, poveri esseri tristi ed infelici, che ci preoccupiamo di sciocchezzuole come il futuro; noi che alla sera ci lasciamo vincere dalla stanchezza e non ci preoccupiamo di lasciarci andare a discussioni lunghe, complesse e articolate.

Ah, quanto meschina è l’esistenza di tutti noi, povere pecorelle smarrite e senza una guida. Ma per fortuna c’è lui, il moralizzatore, l’unico in grado di capire dallo sguardo la natura dei nostri mali: il peccato!
È attraverso il peccato che ci allontaniamo da Dio, dai suoi insegnamenti e da tutto ciò che renderebbe la nostra vita felice. Ma come possiamo essere così ciechi? E allora perché non prendere esempio dalla sua vita che è così perfetta; dalla sua famiglia che è così perfetta; dalla sua condotta che è così perfetta: tutto ciò che lo circonda e tutto ciò che lui tocca è perfetto. Si, lo so, ho usato troppe volte la parola “perfetto”, ma ditemi quale altro termine riuscirebbe a descrivere al meglio la sua persona. Nessuno ovviamente.

A questo punto (già vi vedo col viso deformato dalla curiosità) vorrete sapere chi è questo essere al di sopra delle parti e dove lo si può trovare. Nulla di più semplice, basta seguire il mio stesso corso prematrimoniale e avrete l’onore di conoscerlo e di farvi da lui catechizzare. Scoprirete quanto sia bello sentire la sua voce mentre, con sguardo fiero ed imperturbabile, enuncia i mali dell’umanità (presenti nelle nostre misere vite) e ci indica la strada per superarli e sconfiggerli. Ah, quel suo modo di parlare, quella dialettica, quel tono fermo, quel sorriso sprezzante, quel dito puntato contro di noi: tutte cose che un giorno mi mancheranno, perché senza di lui la mia vita potrebbe tornare quella di sempre quando, ignara di tutto, la affrontavo e la vivevo come tutti gli altri esseri umani sulla faccia della terra.

giovedì, ottobre 02, 2008

Corso prematrimoniale


Avrei potuto iniziare questo post con uno dei più classici incipit, tipo “Sembra strano, pensavo che mai sarebbe accaduto, eppure anche per me è giunta l’ora di frequentare un corso prematrimoniale…”, ed invece la frase che mi viene più naturale dire in questa circostanza è un’esclamazione che recita pressappoco così: “Oh mio Dio!”.
“Oh mio Dio” altro non è che la prima cosa che ho detto non appena è terminato il nostro primo incontro, e temo che null’altro riuscirebbe ad esprimere al meglio il mio stato d’animo. Mi avevano messo in guardia sul tipo di personaggi con cui mi sarei dovuta rapportare e che l’unico atteggiamento da assumere era quello della “rassegnazione” in attesa che tutto arrivi ad una conclusione, però, dentro di me - rivangando quell’ingenua speranza che mi accompagnava da bambina quando vedevo decine di coppie, dopo la messa della domenica, recarsi in sacrestia per il loro corso - pensavo che forse qualche cosa di utile ne sarebbe venuto fuori. Ma ahimé, mai speranze furono rese più vane.
Non ho ancora capito bene la dinamica della situazione, non ho ancora capito bene quale sarà lo scopo di tutta la faccenda (i due catechisti ci assicurano che il corso riesce bene solo se alla fine almeno due coppie scoppiano), però so per certo che i primi 7 incontri saranno di natura religiosa e che i restanti saranno tenuti da esterni. Ma esterni di che? Boh, staremo a vedere.
Ma parliamo dei due catechisti sopra citati, che non amano definirsi così. La loro premessa (che poi voleva essere una promessa) di non essere 2 catechisti rigorosi ed intransigenti, ma due persone con cui parlare, dialogare e a cui rivolgere dubbi ed incertezze, si è dileguata dopo pochi minuti di conversazione, quando “all’apparir del vero tu misera cadesti”. Non me ne vogliate male, le citazioni leopardiane sono quelle che amo di più, quindi se le trovate qua e là sui miei testi non fateci caso, però servono a rendere l’idea. Infatti, non appena è iniziata la lezione, i due tizi hanno dismesso i panni degli “amici un po’ più maturi” per indossare quelli di sacerdoti in borghese.
Mi sentivo a messa, smarrita in una delle tante lunghe, estenuanti e dispersive omelie alle quali mi sottoponevo quando un tempo la chiesa la frequentavo per davvero. Le omelie sono sempre state il mio punto debole, nella maggior parte dei casi la mia mente divagava in fantasticherie, in pensieri contorti, complessi, confusi e senza capo né coda, perché seguire i ragionamenti del sacerdote era per me un’impresa ardua.
Ma non divaghiamo!
Mi rendo conto che ognuno dei catechisti merita una descrizione appropriata che non mancherò di fornire nei prossimi giorni, non appena avrò raccolto materiale sufficiente a delineare il loro identikit!

mercoledì, settembre 24, 2008

Un giorno perfetto

Guardare questo film senza avere letto il romanzo è come mangiare una cassata senza zucchero, o un cannolo senza ricotta; è come guardare un tramonto ad est; è come guidare un auto con il cambio automatico: si può ammirare l’aspetto estetico e cogliere appena le sfumature, ma non si può mai arrivare a cogliere la vera essenza.
Ecco l’effetto di questo ultimo sforzo di Ferzan Ozpetech, regista che tra l’altro ho molto apprezzato in diversi suoi lavori (non tutti a dire il vero…). È come se la telecamera si limitasse a passare superficialmente sulle vite dei protagonisti, senza mai soffermarsi, senza mai addentrarsi, senza mai cogliere il travaglio interiore che li accompagna per tutta la storia ed anche oltre. La vera forza del romanzo sta nell’essere riuscito a raccontare, nel giro di 24 ore, tutta la vita di una serie di personaggi spesso collegati tra loro da un filo assai sottile. In quelle pagine, intrise di passione, tormento, gioia, tenerezza, dolore, incertezza, amarezza, inquietudine e via discorrendo, si trova l’essenza della vita, di quella di ognuno di noi, attraverso le nostre esperienze, i nostri pensieri, i nostri desideri. In un modo o nell’altro finiamo per rivederci riflessi nei pensieri che tormentano i vari protagonisti, come se in quelle pagine si stesse parlando di noi. Ed il libro non finisce lì, perché non appena lo si chiude dopo avere letto l’ultima pagina, ci rimane qualcosa addosso, come se la storia continuasse anche se nessuno si è preso la briga di scriverla; è come se i personaggi continuassero a vivere ed il desiderio di sapere che cosa stiano facendo, come potranno reagire a certe notizie, come continueranno a vivere la loro esistenza… tutte queste cose ci rimangono appiccicate addosso. Insomma la storia del romanzo è così bella che finisce per essere familiare.
Il film invece fugge via, la trama si svolge entro quei 90 e passa minuti e poi si spegne con i titoli di coda, senza lasciare traccia alcuna se non un senso di schifo per come possano esistere certe realtà. Si rimane così, con un senso di vuoto e di incertezza, con una lista affollata di domande senza risposta, con una fitta schiera di “perché” e con il desiderio di dimenticare il più presto possibile.
Ma in fin dei conti lo sapevo, perché nel 99% dei casi i film tratti da romanzi sono deludenti, noiosi, barbosi e dissacranti. Confidavo nella recitazione e nel cast di tutto rispetto, ma anche quella langue: troppi sguardi atoni, troppi primi piani che potrebbero dare di più e che invece sembrano solo una moltitudine di fotografie inespressive messe una accanto all’altra. Forse l’unica che mi è piaciuta è la Sandrelli (anche perché il suo personaggio differisce in qualche maniera da quello del romanzo e quindi l’ho potuta ammirare con maggiore libertà): per il resto tutto tace.
Ma non fatevi influenzare dal mio giudizio: se non avete letto il libro può anche darsi che allora vi piaccia. Ma se lo avete fatto, allora guardatevene bene!
Tutto ciò che mi rimane è il ricordo di quelle pagine ed una canzone, come una colonna sonora, "Perfect day" di Lou Reed (che tra l'altro viene accennata nell'introduzione del romanzo).

martedì, agosto 19, 2008

Cerco un'amica!

Mi ritrovo a dovere scegliere i testimoni per il mio matrimonio e tra i miei amici ci sono solo nomi maschili. Ormai lo dico da sempre: ho bisogno di una amica. Avete presente la classica amica del cuore, quella con cui uscire il sabato pomeriggio a fare shopping; quella a cui chiedere consiglio; quella a cui telefonare quando hai 2 minuti liberi; quella con la quale organizzare una cena; quella a cui confidare i propri segreti; quella con cui iscriversi in palestra, o ad un corso di cucina, o ad un corso di danza del ventre… Insomma, un’amica, né più e né meno.
Il problema è che con il mio carattere non è mica così semplice stringere rapporti di amicizia con la gente. Quando mi trovo una persona davanti finisco sempre per avere un comportamento tale che incute freddezza, distacco e totale disinteresse dell’altro, quando in realtà io vorrei trasmettere tutto il contrario. E questa cosa la soffro perché mentre da un lato mi sforzo mostrosuamente per cercare un briciolo di rapporto interpersonale, dall’altro finisco per allontanare la gente come se avessi la peste.
Ecco cosa sono: un’appestata!
Però in passato ce le ho avute delle amicizie bene o male profonde.
Prendi Francesca; ci conosciamo dai tempi della scuola e ci siamo sempre tenute in contatto. Poi lei si è trasferita a Roma e, nonostante all’inizio facessimo di tutto per non allontanarci, alla fine i nostri impegni hanno finito per portarci a vivere vite e percorsi differenti, al punto che ci sentiamo a stento un paio di volte l’anno.
Prendi Barbara. Un tempo ci chiamavamo “sister”, come la sorella che nessuno di noi aveva mai avuto ed era bello stare ore ed ore a chiacchierare, anche se lei viveva ad Ancona ed io a Palermo. Ci scrivevamo lunghe e-mail, ci trattenevamo in chat anche fino alle 4 del mattino, ci telefonavamo e ci mandavamo tanti sms. Poi lei si è trasferita in Belgio e, come è successo per Francesca, abbiamo finito per allontanarci.
E prendi infine Betty. Anche con lei, quando ci vediamo, parliamo e ci confidiamo delle cose, ma poi lei torna a Cagliari, dove vive da sempre, ed il quotidiano finisce per separarci.
Dopotutto bisogna ammetterlo: sono sfortunata! Le mie amicizie si allontanano da me e diventano ingestibili.
Ma io voglio avere un’amica! È così difficile?
Per me sì.
Per esempio al lavoro ci sono due colleghe donne, mie coetanee tra l’altro, con le quali potrei intrecciare in qualche modo un rapporto, ed invece me ne sto sempre lontana e per i fatti miei, non mi faccio mai vedere, non cerco di intavolare nessuna discussione e quando loro cercano di coinvolgermi finisco per allontanarmi. Ma anche al di là del lavoro, ci sono tante ragazze con le quali in qualche modo c’è un rapporto che io potrei coltivare e portare avanti, ed invece finisco sempre per rimanere nel vago senza mai entrare nel vivo. Lo ammetto, sono un disastro, sono una frana, sono l’antitesi della comunicazione, ma non tutto ciò che sembra finisce per essere ciò che è!
Io vorrei superare questi miei limiti ma non ci riesco. Perché è così difficile?
Allora rivolgo qui il mio appello: se c’è un’anima pia, paziente e pronta a cogliere le sfumature, in cerca di un’amica, io mi offro volontaria.
Che cosa ho da offrire? Bè sono simpatica (anche se dietro il mio atteggiamento chiuso ed introverso è difficile cogliere questo aspetto), so fare ridere la gente quando voglio e so fare battute appropriate alle circostante. Certo non so raccontare le barzellette e non so condire i racconti di episodi di vita con abbellimenti divertenti, però grazie alla mia autoironia riesco in qualche modo a suscitare ilarità.
Mi piace molto leggere e andare al cinema, quindi ho molti argomenti culturali su cui disquisire e che possono essere utili quando si vuole fare un discorso un po’ più serio.
E poi sono un’amica che sa ascoltare, sa confortare, che si preoccupa delle persone a cui vuole bene e che cerca anche di aiutare con le proprie possibilità. Sono sempre pronta a fare un favore, so anche essere generosa e mi piace sempre fare regali che non sono banali ma che vengono fuori dalla mia creatività.
Ebbene se tutto questo è per voi sufficiente, se avete voglia di conoscermi, se sapete andare oltre le apparenze, se non vi fermate di fronte al mio sguardo apparentemente gelido ed indifferente, io sono pronta ad accogliervi a braccia aperte ed a provare ad essere una vostra amica.

martedì, luglio 22, 2008

Timidezza

A volte mi sento prigioniera. Prigioniera di una enorme maschera che mi avvolge tutta e mi fa apparire al mondo come una persona silenziosa, priva di emozioni e di slanci di qualunque genere, che non ha mai molto da dire, che quando parla balbetta e dice cose ovvie e scontate e che non sembra avere opinioni o pareri sulla maggior parte delle cose del mondo. Mi viene voglia di urlare, di sprigionare tutta la mia energia, di mettermi a battere con violenza contro questa stupida maschera e sfracellarla in mille pezzi, di uscire finalmente allo scoperto e dimostrare al mondo la persona che veramente sono.
E allora tutti capirebbero e saprebbero che anche io ho degli slanci affettivi, che amo, odio, rido, piango, mi arrabbio, mi calmo, urlo, sussurro, mi deprimo, mi rallegro…
E tutti capirebbero e saprebbero che anche io ho delle opinioni su tutte le cose che riguardano il mondo: sulla politica, sulla morale, sul calcio, sul cinema, sulla letteratura, sull’attualità, sulla musica e su tutto ciò per cui si può avere un’opinione. Io ho migliaia di opinioni sepolte, nascoste dentro di me che aspettano solo di essere ascoltate.
E tutti capirebbero e saprebbero che anche io ho delle storie da raccontare: divertenti, tristi, appassionati, vere o false che possano essere, ma sono storie che io conosco e che vorrei solo che qualcuno le ascoltasse.
Ma poi c’è la mia maschera che mi impedisce di fare tutto questo e che continuamente filtra tutte le mie azioni. È come un regime totalitario che si è insediato dentro di me senza che io potessi opporre alcuna resistenza e da allora ogni mia azione viene controllata. Questo regime totalitario ha l’obbligo di annullarmi, di eliminare tutto ciò che di umano c’è in me per farmi apparire la persona più insignificante ed inutile sulla faccia della terra.
E chi vuole la compagnia di una persona insignificante ed inutile?
Ovviamente nessuno.
Chi è talmente masochista da farsi volutamente del male costringendosi a passare del tempo con una persona così problematica come me?
Ovviamente nessuno.
Ed è in questi momenti che mi sento così sola. Sola con me stessa, con la mia inutile personalità contorta e bistrattata, che non è capace di uscirne fuori. Per tutta la vita ho dovuto faticare quattro volte più degli altri per ottenere la metà di quello che ottengono gli altri. Il tutto sempre con frustrazione e fatica, a volte accompagnato da un persistente senso di sconfitta senza rimedio.
Ed è per questo che a scuola studiavo tanto e bene: almeno così qualcuno si sarebbe reso conto della mia esistenza. Ed è per questo che al lavoro cerco sempre di dare il meglio di me: almeno qualcuno si accorge della mia esistenza ed almeno ciò che faccio finisce per essere utile ed a volte anche indispensabile.
Solo così io posso emergere, attraverso la cultura, il sapere, la conoscenza, la competenza, la precisione, l’efficienza. E se per caso in uno di questi aspetti fallisco, ecco che mi sento una persona inutile che non ha alcuno scopo nella vita.
Lo so, sono contorta ed anche un po’ misteriosa. Sono un mistero anche per me stessa, non crediate sia semplice convivere con questo regime totalitario e autarchico. Per fortuna ogni tanto mi viene in soccorso un po’ di autoironia che allevia la mia sofferenza e mi fa apparire meno impersonale ed un po’ simpatica. Ma dove sei oggi autoironia?

lunedì, marzo 10, 2008

Memorie di una geisha

Dopo aver visto il film per ben due volte ed aver letto il libro per intero, oggi posso affermare con certezza (ed un pizzico di orgoglio) di avere finalmente compreso che cosa è una Geisha. Il problema adesso è spiegarvelo! Non perché la cosa sia complessa in sé, ma perché per noi occidentali è assai difficile riuscire a cogliere i mille aspetti di una cultura così diametralmente opposta alla nostra come quella giapponese. Già ricordo, ai tempi dei cartoni animati made in Japan, quanto è stata dura dover accettare l’idea che al mondo esiste un popolo che non usa né sedie né letti e che quindi mangia e dorme per terra; che ogni volta che entra in un luogo chiuso deve togliersi le scarpe ed indossare degli zoccoli adatti per gli interni… Insomma, roba forte per noi che viviamo al di qua degli Urali.

E se già questo è stato un compito arduo anche per voi, come potete pensare di assimilare il concetto di geisha con semplicità? Se la definizione di “donna di piacere” per voi sembra la più consona,. allora siete lontani anni luce dalla verità. C’è un passo del libro che spiega il modo di indossare il kimono che a mio modo di vedere chiarisce perfettamente il concetto: il kimono è un abito assai complesso, che si compone di varie parti. Una di queste è l’obi, ovvero una larga cintura che si indossa attorno alla vita. Questa cintura va legata dietro la schiena in un modo particolare, ed è assai difficile per una persona metterla da sola. Dovete figurarvi che c’è gente che di mestiere aiuta le geishe a vestirsi, tanto è complicata la cosa. Al contrario però le prostitute allacciano l’obi davanti, con un nodo più semplice, poiché durante la notte sono costrette più volte a spogliarsi e a rivestirsi.

Ecco spiegato perché la geisha non è una donna di piacere.

Ed allora che cosa è, vi starete chiedendo voi.

Innanzitutto una geisha è un’artista, come viene spiegato in un altro passo importante del libro (e questa volta anche del film). Per diventare geisha occorre studiare parecchio, imparare la danza, la musica, la recitazione, ed è uno studio che è costante nel corso della vita. La geisha indossa kimono bellissimi e costosissimi, è sempre ben truccata e acconciata, ha un portamento elegante, movimenti aggraziati ed intrattiene gli uomini danzando, raccontando storie divertenti, inventando giochi, versando il the o il saké, ammiccando e via discorrendo. Ed esistono uomini che pagano ingenti somme per pregiarsi della loro compagnia. Ma la geisha non si concede agli uomini, giammai deve commettere un simile errore, perché la sua reputazione andrebbe rovinata. Le uniche volte che una geisha si concede sono in occasione del suo mizuage e per il suo danna.

Il mizuage altri non è che la perdita della verginità. In Giappone gli uomini erano disposti (non so se ancora oggi è così) a pagare ingenti somme per ottenere questo privilegio, finendo spesso per aprire delle aste al rilancio. Lo so che sembra strano, ma sono giapponesi!

Il danna invece è l’amante, ovvero l’unico che può avere rapporti sessuali con la sua geisha. Una gesiha può avere pochissimi danna nel corso della sua vita, perché troppi rovinerebbero la sua reputazione. Il danna paga una barca di soldi per avere questo privilegio, ed in più deve dispensare ingenti regali che spesso si traducono in gioielli o kimono.

Ma dietro a questo mondo così sbrilluccichevole, fatto di sorrisi, di ricchezze, di mistero, di poesia e di allegria, si nasconde un altro mondo, una orribile macchina infernale dentro la quale si impastano interessi economici, rivalità spesso atroci, invidie e tanta solitudine. Non si diventa geisha per scelta. Il più delle volte i genitori, costretti a vivere nella miseria, per garantire alla loro figlia un futuro migliore decidono di venderla ad un okiya, ovvero una casa di geishe, dove si vive in uno stato quasi di schiavitù ma dove, dopo un percorso assai duro e difficile, si può raggiungere una posizione tale da dimenticare che cosa è la povertà da cui si è venuti.

Questa, in maniera assai spiccia e semplicistica, è la mia spiegazione. Ovviamente vi invito a vedere il film ma soprattutto a leggere il libro, molto intenso oltre che dettagliato, che vi farà assaporare questo lungo percorso attraverso la storia della piccola Chio, destinata un giorno a diventare la geisha Sayuri. La storia si dipana a cavallo della seconda guerra mondiale e mostra in maniera chiara non soltanto la condizione della geisha, ma anche la dolorosa ed irrefrenabile corsa dei giapponesi verso l’occidentalizzazione. Mannaggia alla globalizzazione!!!


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lunedì, febbraio 11, 2008

Federico Moccia: come fare successo parlando di banalità

Premetto che non nutro una particolare stima nei confronti di Silvio Muccino. Non che mi abbia fatto qualcosa di particolare, ma ritengo che la sua faccia troppo da bravo ragazzo e quella lingua di pezza che ancora si porta dietro nonostante le cure, gli tolgono credibilità in molti dei suoi ruoli. Comunque non è di lui che volevo parlare oggi, e questo penso lo avevate già capito dal titolo del post. Il vero motivo per cui l’ho tirato in ballo è stata una sua affermazione in merito al fenomeno Moccia che mi permetto di riportare qui “In lui la gente trova quello che vuole sentirsi dire”.

Ora voi vi chiederete il perché di questa colta citazione. Ebbene era da parecchio tempo che mi domandavo il motivo di questo inspiegabile successo e finalmente il buon Muccino è riuscito ad illuminarmi. Ma a questo punto occorre che io faccia una seconda premessa per dare anche un senso a tutto ciò che sto per scrivere.

Di Moccia avevo sentito parlare già da tempo, ed in particolare del suo romanzo più celebre “Tre metri sopra il cielo” che gli ha dato tanta fama e tanta gloria. Lo vedevo sempre esposto in libreria ma per un motivo o per un altro, nonostante mi sia trovata sul punto di acquistarlo parecchie volte, alla fine non l’ho mai fatto. Il motivo del mio traviamento era scaturito da una lotta interiore molto agguerrita: se da un lato non amo i fenomeni di massa, dall’altro c’è una forte curiosità da parte mia nei confronti di tutte quelle cose che riescono ad ottenere un così grande successo. In poche parole mi piace capire il segreto di tanto successo,

avere una mia opinione personale e potere dire che una cosa è bella o brutta solo con cognizione di causa. È grazie a questa curiosità che ho letto “Il codice Da Vinci” di Dan Brown e posso affermare, adducendo tutte le motivazioni del caso, che non mi è piaciuto; ed è sempre grazie a questa curiosità che ho letto tutti i libri di Harry Potter e posso affermare, sempre in modo dettagliato, i motivi per cui mi è piaciuto. Quindi perché negare anche a Moccia il privilegio di passare sotto l’attento esame del mio giudizio?

L’occasione si è presentata qualche anno fa, quando in TV hanno dato, in prima visione, “Tre metri sopra il cielo”. Quella sera, tra l’altro, ero da sola a casa e non avevo niente di meglio da fare. Perché non approfittarne?

E così mi sono piazzata davanti il televisore con tutta la buona volontà necessaria, ma dopo un quarto d’ora ho iniziato a nutrire serie perplessità. Ho voluto continuare, facendomi del male volontariamente, ma già alla fine del primo tempo avevo preferito accendere il pc e chattare su C6! (per la cronaca, anche se la cosa non vi interesserà più di tanto, quella sera conobbi un ragazzo molto interessante, con il quale ci scrivemmo parecchie e-mail, e che poi ho perso di vista).

Ho trovato tutto così banale. È la più classica delle classiche storie d’amore tra una liceale (carina, molto brava ragazza, che va bene a scuola e non disubbidisce ai genitori) che finisce per innamorarsi del bulletto di quartiere, un ragazzo apparentemente molto violento, che va in giro con la sua moto ed il giubbotto di pelle a fare gare pericolose e a picchiare gli altri ragazzi. Insomma niente di nuovo che non sia già stato raccontato in Grease o addirittura in “Sentieri”.

Eppure, nonostante la banalità e la prevedibilità, Moccia gode di un successo strepitoso: tutti lo leggono, tutti guardano i suoi film al cinema e tutti attendono con ansia l’uscita di un suo nuovo libro. Perché? Inizialmente mi sono detta che forse ci troviamo di fronte al classico fenomeno adolescenziale (dopotutto le sue storie parlano di ragazzi molto giovani alle prese con i primi amori), ma se penso che la mia adolescenza l’ho passata a leggere Tolstoj e Dostojevski sinceramente mi viene un po’ da sorridere. Vabbè, forse le mie letture tanto adolescenziali non lo erano e magari, se mi fossi indirizzata su Moccia, forse oggi avrei avuto una visione più allegra e leggera della vita, ma che ci volete fare, ognuno ha i suoi difetti!!!

Ma comunque, per tornare al discorso di prima, i libri di Moccia non fanno altro che metterci di fronte a tutte quelle situazioni che noi tutti vorremmo vivere e che però non abbiamo il coraggio di fare: grandi amori, spesso impossibili e difficili, tra persone così diverse e così lontane tra loro, che nonostante tutto esplodono con tutta la loro forza e regalano quel giusto mix di passionalità e trasporto. Chi non vorrebbe vivere storie così? Chi non vorrebbe amare con tutto se stesso, perdere il lume della ragione, anzi addirittura prendere la ragione e buttarla in un cassonetto, per potersi abbandonare totalmente all’amore?

Ecco il perché di tanto successo. Perché poi, alla fine, quando arriviamo all’ultima pagina e leggiamo il finale, il libro lo chiudiamo, lo riponiamo nello scaffale della nostra libreria e torniamo alla nostra vita di sempre, fatta di quella ragione di cui, dopotutto, non possiamo fare a meno.


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giovedì, gennaio 31, 2008

Bianco e nero

Cast
Fabio Volo, Ambra Angiolini, Eriq Ebouaney, Katia Ricciarelli, Franco Branciaroli, Anna Bonaiuto, Bob Messini, Aïssa Mäiga, Teresa Saponangelo
Regia
Cristina Comencini
Sceneggiatura
Cristina Comencini, Giulia Calenda
Durata
01:40:00
Data di uscita
Venerdì 11 Gennaio 2008
Genere
Commedia
Distribuito da
01 DISTRIBUTION (2008)

Probabilmente la trama non è tra le più originali ed il finale è abbastanza scontato, però questo film riesce a raccontare con ironia e leggerezza un tema abbastanza attuale e delicato come la convivenza multietnica. È facile parlare, lanciare campagne di sensibilizzazione, impegnarsi per fare costruire un pozzo in Africa ed impedire a dei poveri bambini di fare ogni giorno decine di km per procurarsi acqua potabile, lottare per abbattere il razzismo e sentirci tutti sullo stesso piano; ma quando si viene coinvolti direttamente, quando si è presi in prima persona, quando ad essere coinvolti siamo noi e i nostri sentimenti, siamo davvero così bravi a mettere in pratica ciò che predichiamo?

La storia è semplice: Carlo è un uomo, bianco, fa il tecnico informatico, è sposato con un attivista pro-africa ed ha una bambina; Nadine è una donna nera, lavora all’ambasciata senegalese in Italia, è sposata con uomo nero, anche lui impegnato nella lotta contro il razzismo, ed ha due bambini. Carlo e Nadine si conoscono, si innamorano, lasciano le loro famiglie e ben presto si rendono conto che quello che più brucia ai loro ex coniugi non è tanto il tradimento ma essere andati con una persona dalla pelle di colore diverso. E meno male che predicavano tanto l’antirazzismo!

La cosa bella di questo film è che da un’interpretazione da tutti e due i punti di vista. Se per i bianchi è strano frequentare una persona così diversa, altrettanto si può dire per i neri. Ci sono troppe barriere culturali, troppi pregiudizi, troppe difficoltà che da un lato uniscono la coppia ma dall’altro la dividono. Insomma, una specie di “Indovina chi viene a cena” dei giorni nostri con una passionale un po’ più palese.

Alla fine del film sentivo qualche commento stupito: “Ambra non me l’aspettavo così brava”. Era lo stesso stupore che ho avuto anche io quando l’ho vista in “Saturno contro”, film che le ha fatto vincere qualche premio importante. A volte ci sorprendiamo di come certi personaggi arrivino al successo senza sapere fare niente e solo dopo diversi anni scoprono quale è il loro vero talento e lo mettono in pratica. Peccato solo che siano davvero pochi quelli di talento.

Vorrei spendere due parole nei confronti di Fabio Volo: il ragazzo è simpatico, fa il dj, scrive libri, fa film… insomma sa fare un po’ di tutto ma nessuna di queste cose la sa fare veramente bene.


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lunedì, gennaio 28, 2008

La mafia fa schifo (ma Totò Cuffaro mancu cugghiunia)


Praticamente da sempre non facciamo altro che collezionare una serie di brutte figure nei confronti dell’Italia e del resto del mondo, che finiscono per aggravare la pessima opinione che tutti hanno nei nostri confronti. Non bastava avere rieletto come presidente della regione Totò Cuffaro, già indagato per mafia; non bastava che al termine di un lungo ed estenuante processo quest’ultimo risultasse colpevole e condannato a 5 anni per favoreggiamento; non bastava che, nonostante la condanna, il nostro caro presidente se ne tornasse alla sua poltrona come se nulla fosse accaduto, a lavorare per noi e per il nostro bene; ebbene, non bastava tutto questo, ci voleva pure festeggiare la condanna a suon di cannoli, come se avesse vinto alla lotteria! Unire 2 elementi caratteristici della nostra Sicilia: l’elemento positivo, le nostra tradizione culinaria, con l’elemento negativo, quella mafia che da sempre ci sporca. D’ora in poi tutti accomuneranno i cannoli con la mafia…. Vi rendete conto del danno morale?

Alla fine le dimissioni tanto attese sono arrivate, al termine di un discorso pronunciato dal nostro ex presidente in cui lui, agnello sacrificale vittima di una giustizia malsana ed ingiusta, si vedeva costretto ad abbandonare il suo incarico per non compromettere il lavoro del suo parlamento. Discorso tanto aulico quanto inutile poiché una lettera di sospensione stava per arrivare alla sua scrivania.

E tutto questo dopo i manifesti formato gigante che qualche tempo fa tempestavano tutte le strade, con la scritta “LA MAFIA FA SCHIFO” e firmati dallo zio Totò in persona. Manifesti pagati ovviamente con i nostri soldi.

Ma la cosa più triste in assoluto, che ancora di più ci danneggia come immagine, è che nel confronto di due anni fa, che vedeva contrapposto un indagato per mafia come Cuffaro, e una vittima della mafia come Rita Borsellino, ha visto vincere (anzi stravincere) il primo, come a voler ribadire una strada intrapresa e portata avanti.

Che tipo di messaggio stiamo trasmettendo al resto del mondo? Mafiosi siamo e mafiosi vogliamo rimanere, ecco il concetto, ecco il nostro più grande disonore.

Purtroppo il nostro sistema elettorale, ancora oggi, si basa sul porta a porta. Un tizio bussa alla tua porta e ti regala centinaia di bigliettini elettorali con il suo nome. Poi, con voce pacata, amichevole, gentile e rassicurante, si dispiace del fatto che nella tua famiglia ci sia tuo fratello, tuo padre, tuo marito, tuo zio, ecc… che purtroppo non ha un lavoro stabile. Certo ci vorrebbe un miracolo per “farlo impostare”, così tutta la famiglia ne trarrebbe giovamento. Ma aspetta un attimo, fallo pensare, forse forse una soluzione ci sarebbe. Lui conosce qualcuno che conosce qualcuno che conosce qualcuno che sta nei piani alti e volendo ci potrebbe mettere una buona parola. Magari certe situazioni si sbloccano e se tutto va bene potrebbe fare il nome del tuo parente e tutto si risolverebbe. Certo però se lui fosse eletto tutto sarebbe più facile, anzi non ci sarebbero problemi.

E gli elettori, come tanti caproni, si fanno infinocchiare da queste promesse che alla fine produrranno la bellezza di un panettone del discount a Natale e tanti cari saluti.

Siamo ignoranti, siamo stupidi e certe cose ce le meritiamo. La mafia, dopotutto, fa parte della nostra stessa natura e in fin dei conti un po’ ci fa comodo, se non altro per addossarle tutte le colpe dei nostri fallimenti.


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mercoledì, gennaio 23, 2008

L'amore ai tempi del colera - Il film


Un film di Mike Newell. Con Javier Bardem, Giovanna Mezzogiorno, Benjamin Bratt, Catalina Sandino Moreno, Hector Elizondo, Liev Schreiber, Fernanda Montenegro, Laura Harring, John Leguizamo. Genere Drammatico, colore 138 minuti. - Produzione USA 2007. -

La cosa triste sapete quale è? È che tutti coloro che hanno visto il film ma non hanno letto il libro si sono convinti che la storia sia così come l’hanno vista sul grande schermo. Niente di più sbagliato.

Non che la trama del film abbia avuto particolari variazioni, anzi bisogna dire che si è attenuta al romanzo ed anche i tagli apportati non sono stati così drastici, tuttavia è l’effetto finale che ha sbagliato completamente direzione.

Innanzitutto manca la passionalità, il trasporto, la carica emotiva che trasmettevano le pagine di Marquez. Anzi se c’è una cosa che bisogna sottolineare è che, sebbene leggere Marquez non è mai facile, quello che però piace è la passionalità tipica dei sudamericani che trasuda dalle sue pagine. Non si legge Marquez perché ci si vuole rilassare; non si legge Marquez sotto l’ombrellone; non si legge Marquez la sera prima di addormentarsi (anche se a volte ispira proprio il sonno); ma si legge Marquez perché si vuole fare un viaggio in un mondo carico di forti emozioni che ti rimangono dentro anche se pensi che è tutta finzione letteraria.

Ebbene questa passionalità nel film manca. Ed anche i personaggi risultano un po’ accennati e lasciati a metà. Tutti loro sono combattuti da quelle che sono le regole della ragione e quelle che sono le regole (anche se non si dovrebbero chiamare così) del sentimento e della passione. E siccome sono due cose che fra di loro cozzano assai, il loro intento di farli convivere si trasforma in un tormento. L’unico ad abbandonarsi alla passione, tralasciando tutte le convenzioni del caso, è Fiorentino Ariza, che non è un poveretto qualunque che si dichiara innamorato di una donna e poi, per dimenticarla, va a letto con altre 600 fanciulle. È tutto sbagliato, non è questa la sua vera natura e non è questo il suo intento. Lui non è un pazzo o un presuntuoso o un ometto che si attacca morbosamente ad un amore giovanile. In realtà dietro a questo amore c’è tutta la purezza di un sentimento vero che va ben oltre ogni cosa. E che importa se per coronare il suo sogno dovrà aspettare 50 anni e superare le barriere che lei continua a frapporre fra loro? E quando alla fine lui dichiara di essersi conservato vergine per lei, il pubblico ride fragorosamente. E grazie! Visto così fa veramente ridere, ma provate a leggere tutto il libro (sempre se ci riuscite) e poi vedete che l’effetto di queste parole cambia completamente.

Anche Fermina Daza è accennata e basta. Certo la Mezzogiorno nei panni di una sedicenne è poco credibile. La situazione migliora quando lei comincia ad invecchiare ed allora le espressioni cambiano e diventano più realistiche. Ora perché lei prima cede all’amore di Fiorentino e poi, per un motivo apparentemente così futile, lo lascia e si sposa con un dottore per il quale non sembra provare nulla? Non lo sapete vero! È ovvio, perché non si capisce nulla. In realtà Marquez ci spiega che Fermina incontra l’amore quando è troppo giovane ed ingenua per riconoscerlo, anzi ne ha paura e quando la ragione comincia a farsi spazio tra i suoi pensieri, allora lo disconosce e preferisce fare una scelta più ovvia e più saggia, salvo poi pentirsene per tutta la vita.

E Juvenal Urbino? Chi è veramente costui? È un medico, un bravo medico, capace di combattere il colera nel suo paese, ma anche un uomo che crede molto in certi valori e quando finisce per provare una forte attrazione per un’altra donna, anche lei sposata, vive questo momento con un tormento tale che non riuscirà più a dormire. Ma tutto questo nel film non lo si coglie.

In sostanza, che cosa rimane di questo film? Bè, da salvare c’è sicuramente la fotografia, che è a dir poco spettacolare e che rispecchia in pieno quelle che erano state le mie proiezioni mentali su tutta l’ambientazione. Per il resto un ritmo troppo lento, scene buttate lì a caso senza una connessione logica e tanta amarezza per qualcosa di veramente bello che però non è stato trasmesso. Ma dopotutto non era un’impresa facile.


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martedì, gennaio 08, 2008

Arriva in Italia Harry Potter e i doni della Morte


5 mesi! Questo è il tempo necessario che abbiamo dovuto attendere per vedere pubblicato in italiano l’ultimo capitolo della saga di Harry Potter, “Harry Potter e i doni della morte”. Io mi ero illusa che già a luglio, in contemporanea mondiale, il libro potesse arrivare tradotto in tutte le librerie, ed invece non soltanto sono stata delusa, ma coloro che lo hanno letto in inglese non sono stati capaci di tenere la bocca cucita ed hanno spiattellato il finale. Ho cercato in tutti i modi di non ascoltare ma purtroppo mi è bastato accendere il TG per avere rivelato tutto, in pochi secondi, togliendomi il piacere della lettura.

Per questo l’uscita del volume in italiano ha avuto in me un impatto meno ricco di attesa rispetto alla versione in inglese. So già come finisce: e che piacere c’è? Dopo che mi sono letta gli altri 6 volumi tutto d’un fiato, dopo che ho gioito ed ho pianto per tutte le vicende che si sono susseguite, dopo tutto questo c’era nei confronti di questo ultimo atto un desiderio smodato di sapere come va a finire tutta la storia. Però saperla così, come una voce di corridoio, come un pettegolezzo volante, come un gossip rivelato con tanto ardore e compiacimento… Che tristezza!

Ma poi alla fine ci sono tante cose che ancora non so e che le scoprirò solo leggendo. Per esempio, quale mistero si cela dietro la figura di Piton? Insomma, è cattivo o buono? E poi perché si arriva a questo finale? Che cosa accade a tutti gli altri personaggi? Come andranno a finire le altre faccende?

Eh sì, lo ammetto, lo attendevo con ansia ed ero già pronta, la notte tra il 4 ed il 5 gennaio, a fiondarmi in libreria per comperare subito l’ultimo volume. Ma alle 8 di sera del 4 gennaio mi arriva una telefonata. È M. che mi dice di avere trovato una copia del libro nella libreria sotto casa mia.

“Che faccio lo prendo?” mi dice lui.

“Eh certo, prendilo!”.

E con 4 ore di anticipo, con una manovra scorretta del libraio, ho in mano l’ultimo volume e comincio a leggiucchiarlo. Però vado a vedere lo stesso l’apertura straordinaria delle librerie e non posso fare altro che pavoneggiarmi, di fronte a coloro che si accalcano, di avere già una copia del libro sul mio comodino e che già la sto leggendo…

mercoledì, gennaio 02, 2008

La guerra di Troia - capitolo 9 - La pazzia di Ulisse

Dopo lunghe trattative e preparativi infiniti finalmente la gigantesca flotta di navi greche era pronta per salpare dal Peloponneso alla volta di Troia. I guerrieri più valorosi già si sfregavano le mani contando mentalmente il numero dei nemici che avrebbero eliminato, eppure la loro euforia venne smorzata quando ci si accorse che all’appello mancava uno dei guerrieri più importanti, ovvero Ulisse, re di Itaca, che con la sua astuzia di certo sarebbe stato assai utile alla causa. Ma dove era Ulisse? E perché non si era presentato?
Agamennone (che nel frattempo era stato nominato generale di tutta la flotta) ed il fratello Menelao partirono insieme alla volta di Itaca per sincerarsi della situazione ma quando giunsero sull’isola si trovarono di fronte ad uno spettacolo tanto inatteso quanto sconcertante: Ulisse, vestito di pochi e malandati stracci, portava su e giù per la spiaggia un aratro trainato dai buoi e andava seminando sale. Ora noi tutti sappiamo bene come si ottiene il sale eppure Ulisse sembrava assai convinto della sua teoria e a sua volta voleva convincere gli increduli Agamennone e Menelao della sua straordinaria scoperta. Poverino, non faceva altro che ripetere frasi sconnesse e senza senso e aveva delle smorfie che non facevano presagire nulla di buono. Possibile che un uomo così furbo ed astuto avesse perso il senno ed ora fosse condannato a vagare come un poveraccio? I due fratelli, tanto increduli quanto sconfortati, se ne tornarono con la coda fra le gambe e con la consapevolezza di avere perso un uomo assai importante.
Ovviamente Ulisse non era diventato pazzo, anzi era più lucido che mai e questo altro non era che l’unico stratagemma che gli era venuto in mente per evitare la guerra. Dopotutto un oracolo gli aveva predetto che se fosse partito avrebbe impiegato 20 anni prima di tornare in patria, e gli oracoli non mentono mai. Già pensava di averla fatta franca e di essere riuscito ad ingannare tutti, ma non aveva fatto i conti con un altro uomo ritenuto assai più furbo ed intelligente di lui: Palemede.
Di Palamede sappiamo che era figlio di Nauplio, re di Eubea, e nipote della danaide Amimone. Divenne assai famoso grazie a molte delle sue invenzioni e scoperte, come il faro, i pesi, le lettere doppie dell’alfabeto, i numeri e alcuni giochi. Ma soprattutto per avere smascherato l’inganno di Ulisse.
Infatti Palamede, recatosi ad Itaca, andò a prelevare il piccolo Telemaco direttamente dalla sua culla e lo pose davanti ad Ulisse mentre trafficava con l’aratro. Il re di Itaca, di fronte alla visione del proprio figlio indifeso, ebbe un istintivo sobbalzo che lo smascherò e mentre Palamede rideva bullandosi della sua bravura nell’avere smascherato un simile inganno, Ulisse mogio mogio si spogliò del suo costume per indossare l’armatura e partire come tutti gli altri alla volta di Troia. Ma di certo questo simile affronto non fu dimenticato. Qualche tempo dopo, mentre la guerra imperversava, Ulisse fece trovare nella tenda di Palamede una finta lettera scritta da Priamo nella quale lo ringraziava per le preziose informazioni fornitegli. Palamede quindi fu accusato di tradimento e condannato a morte con la lapidazione. Questo servì ad Ulisse a saziare la sua sete di vendetta, ma di certo non lo aiutò a tornare prima dalla sua famiglia!
Ma tornando all’accampamento, ora tutto sembrava davvero pronto, più nessuno mancava all’appello…. Un momento, a pensarci bene qualcuno mancava, anzi mancava proprio l’eroe più atteso, il più forte e valoroso, colui che incuteva timore negli avversari con la sola sua presenza: Achille! Passi per Ulisse che con moglie e figlio a carico aveva le sue buone motivazioni per restare a casa, ma che cosa mai poteva trattenere Achille dal partire, lui che non aspettava altro che guerre e combattimenti per mostrare il suo valore e coprirsi di gloria? Questo si che era un vero mistero.

La guerra di Troia - capitolo 8 - Il patto di alleanza

Povero Menelao, quale pesante tegola si era abbattuta sulla sua testa: la moglie era scappata via con un principe troiano ed ora non soltanto doveva convivere con il senso di abbandono che gli lacerava il cuore in due, ma doveva anche fronteggiare tutte quelle chiacchiere che lo volevano “cornuto e bastonato”. Sì perché sebbene la versione ufficiale proclamasse a gran voce che si era trattato di un rapimento, lo sapevano tutti che in realtà Elena se ne era andata di sua spontanea volontà, trovando Paride più affascinate e più intrigante del marito. Per giorni e giorni Menelao pianse lacrime di dolore chiuso nella sua stanza, e quando il dolore si esaurì completamente dal suo cuore, emerse un altro sentimento altrettanto forte e lacerante: odio e desiderio di vendetta. Se avesse avuto Paride tra le mani lo avrebbe squartato in due, lo avrebbe fatto morire di morte atroce e violenta, lo avrebbe deturpato e reso irriconoscibile al mondo intero. E se avesse avuto Elena tra le mani… che cosa le avrebbe fatto? A volte pensava di destinarle la stessa sorte, ma altre volte pensava che aveva solo voglia di riabbracciarla e di ricominciare daccapo con lei. Poveretto!

Ma quel gesto non poteva rimanere un fatto personale. Forse era giunto il momento di riesumare quell’antico patto stipulato molti anni prima da tutti i principi greci che aspiravano alla mano di Elena. Nessuno poteva tirarsi indietro, non ci si può sottrarre ad un giuramento solenne fatto davanti agli dei.

Agamennone, fratello di Menelao e re di Micene, sebbene non avesse partecipato al giuramento, gli diede subito il suo appoggio, così come la maggior parte degli altri principi che, nonostante oramai si fossero accasati con altre donne, non vedevano l’ora di combattere in guerra. Mostrare la propria forza e il proprio valore, tornare in patria da eroi con bottini ricchissimi (che in genere consistevano in oro, cavalli e donne bellissime costrette a fare le schiave e a soddisfare ogni desiderio del proprio padrone) era una prospettiva ben più allettante della monotona vita quotidiana! E poi quale uomo avrebbe potuto più dormire sonni tranquilli sapendo che da un momento all'altro chiunque avrebbe potuto rubargli la moglie e coprirlo di vergogna per il resto della vita?

Ma non tutti erano felici di combattere. C’era per esempio Ulisse, re di Itaca, che si era sposato con la bella e fedele Penelope ed aveva appena avuto un bambino di nome Telemaco. Che cosa gliene importava di combattere contro i troiani per riprendersi Elena? Che cosa gliene importava a lui di avere oro, cavalli e schiave bellissime se ad Itaca c’era tutto quello che desiderava? Bisognava evitare questa guerra e lui sapeva come fare. Convinse Menelao ad agire per via diplomatica ed insieme partirono per Troia, chiedendo di parlare con il vecchio e saggio re Priamo.

E il vecchio re Priamo, troppo intimorito per prendere una decisione così forte da solo, si rimise al suo popolo, in quello che sarebbe stato il primo referendum popolare della storia!

Ulisse, che in quanto ad arte oratoria non aveva nulla da invidiare ai nostri attuali politici, cercò di convincere tutti che una guerra sarebbe stata catastrofica, che avrebbe portato solo morte e distruzione, e che se invece avessero restituito Elena al suo legittimo marito, tutti avrebbero vissuto per sempre in pace, felici, contenti e via discorrendo. Ed il popolo troiano, ammaliato dal bel modo di parlare di Ulisse, pendeva dalle sue labbra ed avrebbe fatto qualunque cosa egli avesse detto se solo Menelao, impaziente come un marito tradito nell’orgoglio, non si fosse alzato in piedi e non avesse cominciato a lanciare spergiuri contro il popolo troiano definendolo ladro ed usurpatore. Di fronte all’oltraggiosa offesa i troiani divennero ostili e preferirono la guerra mentre Ulisse, divenuto rosso dalla rabbia, avrebbe volentieri lanciato Menelao tra la folla per essere massacrato. Era giunto ad un passo dal primo storico accordo diplomatico che forse avrebbe insegnato ai popoli futuri quanto siano stupide le guerre, ed invece quello sciagurato aveva rovinato tutto a causa del suo smisurato bisogno di vendetta.

Ma ancora Ulisse non si rassegnava alla partenza e si arrovellava la mente alla ricerca di un altro stratagemma.


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